Mese: Novembre 2021

I Cenoni del Veronese

I Cenoni del Veronese

A sentire così, vi verrebbe da pensare (soprattutto in periodo natalizio) di essere stati invitati a un cenone di Capodanno. Invece, non dovete aspettarvi né lenticchie, né cotechino, ma dessert di mele cotogne, capolavori di zucchero e gelatina, pane e vino rosso a volontà. L’unica 

Cosmè Tura

Cosmè Tura

L’ARTISTA Cosmè Tura, figlio di un calzolaio, nacque a Ferrara intorno al 1433. Quale sia stata la sua formazione è ancora ignoto; quel che è certo è che l’inizio dei suoi lavori è da ricondurre alla decorazione. Decorazione di oggetti di uso quotidiano per la corte estense, quali 

Fiabe braidensi – In groppa a una giraffa

Fiabe braidensi – In groppa a una giraffa

Sette metri e mezzo di telero occupavano l’immensa parete della sala braidense.

Sette metri e mezzo invitavano il visitatore prima a osservare l’opera da lontano, per poi avvicinarsi ad apprezzare i dettagli. 

Fu nell’accorciare la distanza tra lei e la tela, che la Risolartista cominciò a sentire un certo tepore di aria africana: quella di una tipica mattinata a due passi dal deserto. Al contempo, anche un certo profumino di spezie abbrustolite galleggiava nella stanza, inducendo ad andare ancor più vicino alla superficie del quadro, per cercarne l’origine…

Un attimo, e l’artista si ritrovò nel mezzo del telero. Neppure il tempo di pensare se saltare o no dentro quel quadro avventuroso, e già la folla di Alessandria la schiacciava da ogni parte. 

Tanto valeva godersi la gita in quell’insolita capitale egiziana, che aveva molto del magico, e ben si distaccava dalla noiosa realtà. 

In effetti, per essere Alessandria, era piuttosto strana. Era una rappresentazione insolita, che riprendeva un po’ la vera città africana, ma un po’ anche Venezia. Comprensibile, data l’epoca a cui risaliva il telero (per chi non sapesse cosa sia, il telero è un “sostituito” dell’affresco fatto su tela, così da resistere ai posti umidi come la laguna veneta), ossia al lontano 1500. A quei tempi, era già tanto se l’artista era stato una volta in gita ad Alessandria: non si potevano pretendere fotografie dettagliate da usare come modello! L’autore, per fortuna, un viaggetto laggiù l’aveva fatto davvero: il signor Gentile Bellini aveva visto il mondo arabo con i suoi occhi. 

Mettendo insieme i suoi ricordi con ciò che aveva sotto il naso tutti i giorni (ossia Venezia), era riuscito a creare un capolavoro di scenografia arabeggiante, e insolitamente veneziana. Gli edifici attorno alla piazza erano tipici del mondo musulmano, ma la grande moschea al centro pareva ora Santa Sofia, ora San Marco…

Si poteva forse dare la colpa al fratello minore, il signor Giovanni Bellini (il Bellini veramente famoso!), che era stato “gentilmente” costretto a portare a termine l’opera. L’altro infatti, defunto prima di concluderla, aveva scritto nel suo testamento che, se Giovanni voleva ereditare un preziosissimo quadernetto di loro padre, doveva prima finire l’immenso telero! Un ricatto? Perché no?! Indipendentemente dall’intento, era chiaro che il Bellini (Giovanni) non dovesse avere molta voglia di impegnarsi a correggere i pasticci del fratello (di pasticci “prospettici” ce n’erano non pochi…!). Dunque, non si curò di andare in gita anche lui in Arabia, per prendere spunti realistici sulle loro architetture, ma raffigurò cose più semplici e a lui note.

Tutto ciò, per dire che l’Alessandria che la Risolartista si trovava attorno era molto curiosa: unica nel suo genere. 

Curiosissima era anche la folla in primo piano, in cui si trovava in quel momento immersa. C’erano i turchi ottomani (facile aspettarseli ad Alessandria!), con tanto di turbanti bianchi, ma c’erano anche i Veneziani. Eh sì: ad ascoltare il San Marco che predicava sul podio a sinistra, non mancava un bel gruppetto di tipici aristocratici della Serenissima dell’epoca, con bellissimi abiti cinquecenteschi. E poi, ancora, colpivano l’occhio quelle donne arabe tutte velate di bianco, con dei cappelli nascosti sotto il velo che le facevano sembrare fantasmi.

La Risolartista guardava affascinata quella gente insolita, che sembrava non notarla neppure. Erano tutti concentrati sulle parole del santo, che stava predicando chissà quale messaggio evangelico. Meglio allontanarsi dalla folla, e andare a vedere la moschea più da vicino. 

Proprio mentre se ne stava andando dal centro della piazza, non poté fare a meno di soffermarsi su un volto particolare, con una corona d’alloro in testa. Vedere una corona d’alloro ad Alessandria era ancor più strano che trovarci edifici di gusto veneziano. Una spiegazione, però, c’era; e lei se la ricordava bene. Quel personaggio in questione era Dante. Che ci faceva laggiù? Semplice: era un modo simbolico che l’artista aveva voluto usare per sottolineare come, in quel periodo, la Repubblica di Venezia fosse riuscita a conquistare Ravenna (città in cui il Poeta era sepolto).

Colpita da tanta arguzia, passeggiò fino ai piedi della scalinata che conduceva all’enorme edificio dorato. E lì fece un incontro molto speciale…

Mentre si sforzava di vedere i dettagli della facciata (con scarsi risultati, vista l’altezza dell’edificio), qualcosa cominciò a solleticarle la spalla. Era una giraffa.

Una giraffa: proprio così. Una giraffa dal musetto dolce e simpatico, con delle belle macchie color caffellatte che la ricoprivano dalle zampe alle orecchie. Che cosa voleva da lei? … Voleva aiutarla ad ammirare meglio la moschea.

L’animale abbassò la testa, invitando la Risolartista a montarle in groppa. La ragazzina non esitò: quando le sarebbe ricapitato un simile privilegio?!

A cavallo della sua nuova amica giraffa, ogni particolare della costruzione si apprezzava davvero bene: ogni colonnina, ogni finestra, ogni ricamo dorato, le si fissava in quel momento nella sua eterna memoria. Non avrebbe mai dimenticato quella moschea arabo-veneziana di quell’Alessandria d’Egitto fantasiosa. E tutto grazie a una giraffa!

Soddisfatta del tour attorno all’edificio, propose alla sua cavalcatura d’eccezione di trotterellare ancora un po’ per la città. Aveva ancora tempo, prima di dover tornare a casa (l’ora di chiusura di Brera era lontana). 

In groppa all’amica giraffa, l’artista cominciò a curiosare qua e là, tra quegli edifici bianchi e squadrati, dipinti quasi certamente da Giovanni. Lì, immersa nel telero, le mani dei due artisti si distinguevano proprio bene. Gentile aveva fatto lo sfondo, con la moschea, le palme, e, probabilmente, anche l’obelisco e le torri che gli stavano accanto. Si era occupato del “setting” della scena, insomma. Anche la giraffa doveva essere opera sua, così come i cammelli che si incontravano di tanto in tanto. 

Il fratello minore, invece, si era dedicato alla folla in primo piano: i dolci lineamenti dei volti, molto naturali, provenivano senz’altro dalla sua abile mano. Gli edifici più semplici (sempre sul davanti) erano ancora suoi: lì si vedeva la scarsa voglia di impegnarsi a riprodurre l’Arabia, che non gli doveva essere molto nota…

Mentre passavano sotto uno di quei balconi dai tendaggi tutti variopinti, un delizioso profumino di spezie solleticò il naso di una, e il muso dell’altra. Era senz’altro curcuma, con cardamomo, cumino e l’inconfondibile fieno greco. In una parola: cous cous!

Qualche donna araba si trovava certo in cucina, all’interno di quella casa, e aveva messo sul fuoco una bella tajine (una pentola di coccio marocchina). Tajine… che conteneva un pranzetto a base di cous cous, condito con chissà quale verdura croccante. Le spezie che avevano sentito erano quelle tipiche del condimento che lo rendeva così speciale: non c’erano dubbi!

La giraffa, capendo che l’amica artista era affamata quanto lei, pensò bene di allungare il collo fino alla finestra del balcone, cercando di ottenere qualcosa di buono…

Evidentemente, era una giraffa conosciuta in città, e che stava anche simpatica alla padrona di casa. Pochi minuti, e risbucò dalla casa con una ciotola abbondante piena di cous cous ancora tiepido. Un cous cous buonissimo, che la Risolartista gustò con piacere, seduta in groppa alla sua giraffa. Un cous cous che volle ricambiare, facendo un disegno della moschea per la gentile signora araba che le aveva offerto quel piattino delizioso. 

Era ormai tardi: tempo di tornare nelle sale della Pinacoteca, e di salutare la sua amica giraffa. Tuttavia, le promise che sarebbe tornata presto a visitare il telero dei fratelli Bellini. Non vedeva l’ora di assaggiare il prossimo cous cous che avrebbero trovato in chissà quale altra casa arabeggiante. Si sa che, i piatti tipici, mangiati “in loco”, hanno un gusto tutto particolare…

Predica di San Marco ad Alessandria, Giovanni Bellini
Donato Bramante

Donato Bramante

L’ARTISTA Donato Bramante nacque nel 1444 a Monte Asdrualdo, nei dintorni di Urbino. Lì cominciò la sua formazione di pittore, che poi continuò a Mantova, Milano e Roma.  Iniziò giovanissimo a dedicarsi all’arte, formandosi a Urbino con fra’ Carnevale, pittore e frate domenicano grande esperto di rappresentazioni prospettiche. Già si 

Un invito nel salotto di Cristina Trivulzio di Belgojoso

Un invito nel salotto di Cristina Trivulzio di Belgojoso

Se vi capitasse di ricevere un invito ad unirvi a un salotto artistico o letterario nella dimora di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, dovreste subito accettare. Fidatevi. È una donna che vale la pena conoscere… Non a caso, la nostra città di Milano, quest’anno, ha deciso 

Paolo Veronese

Paolo Veronese

L’ARTISTA

Paolo Caliari, meglio detto Veronese per essere nato a Verona, nacque nel 1528, quando allora quella città era parte della Repubblica di Venezia. Dopo un primo apprendistato vicino a casa, si trasferì presto nella Serenissima, dove fu incaricato di decorare i soffitti del Palazzo Ducale. 

In poco tempo, il nostro artista cominciò a distinguersi per il suo peculiare “colorismo”, ossia uno spettacolare uso del colore, associato a splendide composizioni. Ciò per cui divenne famoso erano le sue “Cene”: immense narrazioni scenografiche di episodi evangelici, che avevano ben poco di sacro, e molto di profano. Alcune sue opere (tra cui l’Ultima Cena, poi rinominata Cena n casa di Levi) furono addirittura citate a processo dal Tribunale dell’Inquisizione, che voleva condannarlo per la sua irriverenza. Per fortuna, sostenendo di aver semplicemente arricchito la tela (enorme) con particolari aggiuntivi per “riempire lo spazio” altrimenti troppo vuoto, riuscì a cavarsela senza grossi guai. Gli bastò cambiare il nome al dipinto più criticato, e poté continuare la sua produzione artistica ancora a lungo…

Gli ultimi anni furono caratterizzati da un nuovo stile, un po’ tizianesco, con accenni patetici, visibili nell’Orazione nell’Orto (a Brera), fin quasi a raggiungere una sensibilità antesignana del barocco.

LA SUA PITTURA

Per il suo incredibile uso del colore, impiegato in composizioni scenografiche grandiose, il Veronese è annoverato tra i più grandi esponenti della pittura veneziana, assieme al Tiziano e al Tintoretto. Lo si potrebbe definire persino il più celebre decoratore di tutti i tempi: i suoi impianti teatrali ricchissimi di dettagli e architetture testimoniano i fasti della Serenissima cinquecentesca in modo grandioso. 

La mano del Veronese si riconosce prima di tutto dalla sua tavolozza cromatica: accesa, ma delicata; variopinta, ma armoniosa. Poi, c’è sempre quel gusto per le scene teatrali, che mettono insieme innumerevoli personaggi dialoganti tra loro, spesso rivolti direttamente a noi osservatori. Ancora, vanno citate le architetture, e panneggi e gli abiti a lui contemporanei, che ci immergono pienamente nell’atmosfera veneziana del tempo. Ultimo elemento è la tematica della “cena”: l’artista doveva essere un appassionato (e conoscitore) dei banchetti e delle regole di servizio che caratterizzavano i banchetti cinquecenteschi…

LE OPERE

LE NOZZE DI CANA

Prima ancora di parlare del contenuto dell’opera, vale la pena raccontare qualcosa sulla storia dell’opera stessa. 

Era il 1797, quando la tela fu letteralmente smontata dalla parete del refettorio del monastero di San Giorgio Maggiore a Venezia. Era il 1797, quando la tela fu tagliata in due pezzi, arrotolata, e poi portata fino al Louvre parigino, per volere di Napoleone. Da allora, malgrado i molteplici tentativi di rimpatriarla, l’opera è rimasta lì, accanto alla Gioconda, senza possibilità di convincere i francesi a una sua restituzione.

Ma passiamo alla scena immortalata: l’episodio evangelico delle Nozze di Cana, trasformate in un banchetto rinascimentale del tempo. 

Abbiamo due registri distinti: uno superiore, con il cielo azzurro, dalla nuvolaglia che sfiora le teste dei servitori affaccendati; uno inferiore, in cui ha luogo l’affollatissimo ricevimento. Sembra quasi di percepire il brusio di tutta quella gente che dialoga e armeggia lungo tutta la tavolata! Non fosse per le due aureole sopra il capo del Cristo e della Madonna al centro, non ci si ricorderebbe neppure di essere davanti a una scena sacra…

Per quel che riguarda la vera storia del Vangelo, è Giovanni a narrarci il miracolo avvenuto durante le celebrazioni nuziali a Cana, quando Gesù aveva trasformato l’acqua in vino, compiendo il suo primo miracolo.  Questo è il punto di partenza; la fantasia del Veronese, però, galoppava rapida e lontana.

Ecco che le nozze evangeliche diventano un banchetto con circa 130 persone, riconducibili ora alla Bibbia, ora alla Venezia a lui contemporanea. 

Per raccontare di tutte quelle trovate curiose che ebbe l’idea di inserire nella scena, possiamo partire dal centro, ossia da quel gruppo di musicisti che paiono tanto concentrati sui loro strumenti. Ebbene, quello vestito di bianco, pare sia il Veronese stesso; quello in rosso, che suona il violoncello, è Tiziano; mentre quello col flauto è Jacopo Bassano. Infine, il personaggio barbuto in verde, proprio accanto all’artista, sarebbe il poeta Pietro Aretino, molto apprezzato all’epoca.

Non mancano neppure gli animali: i due cani legati l’uno all’altro in primo piano; il gattino sulla destra che giocherella con l’anfora.

Se ci concentrassimo sugli invitati del banchetto, riconosceremmo tanto personaggi evangelici, quanto insoliti nobili veneziani, orientali in turbante e servitù a profusione di ogni colore di carnagione.

Allargando il punto di vista, notiamo come la scena sia inserita in un contesto architettonico teatrale e scenografico, tipico dell’artista, con un chiaro omaggio alle Ville del Palladio. Tutto è impeccabilmente definito: dalle posate, alle stoviglie. Per non parlare, poi, delle pietanze servite sulla tavola, tra le quali identifichiamo con certezza le mele cotogne.

Come mai raffigurare proprio delle mele cotogne? Si trattava di un frutto spesso associato al matrimonio, in quanto richiamavano i “pomi d’oro” della mitologia, custoditi dalle Esperidi sull’isola di Creta. Tali frutti furono donati da Gea in occasione delle nozze di Era e Zeus: da allora, divennerosimbolo di fecondità e amore

L’ultima menzione è un complimento all’autore, relativamente alla sua attenzione nella scelta dei colori. O meglio, nella scelta dei pigmenti: grazie alla sua selezione delle materie prime orientali più costose e di miglior qualità, ancora oggi possiamo ammirare le tinte sgargianti sopravvissute ai danni del tempo. 

Le Nozze di Cana

CENA IN CASA DI SIMONE

Ecco una seconda Cena, che segue le Nozze di Cana, e ha una “sorella” con il medesimo soggetto conservata a Torino. Questa, però, si trova oggi a Brera.

Subito si nota l’imponente scenografia architettonica, ripresa dalle Ville del Palladio, che l’autore aveva avuto l’occasione di decorare personalmente. L’aspetto è quello di una lussuosa villa di campagna, con un bel giardino che si intravvede oltre il portale centrale. L’effetto finale è maestoso, grazie anche ai due tavoli a L, riprodotti “sott’in su” che ci danno l’idea di un banchetto importante. A giudicare dalle portate (innumerevoli torte, gelatine e piattini raffinati), sembra di essere invitati a un tipico banchetto delle corti rinascimentali.

L’episodio della cena a casa di Simone, infatti, è calato in un contesto contemporaneo al pittore: una delle tante feste mondane della Venezia del ‘500. Oltre al cibo, non mancano le vesti lussuose, le stoviglie e il servizio reso in modo impeccabile, così come la disciplina dello scalco richiedeva. 

A sinistra, compare la Maddalena che unge i piedi di Cristo con l’olio profumato; è lì che convergono gli sguardi di molti presenti, invitando il pubblico a indirizzarsi in tal modo a sua volta.

Attorno al racconto evangelico, però, la fantasia del Veronese ha voluto creare una serie di dettagli curiosi, che arricchiscono la scena. Spicca il servetto dalla carnagione scura (tipico della Venezia del tempo); spicca anche il cane bianco, colto nell’atto di giocherellare con un altro compare e un povero micio stuzzicato…

Cena in casa di Simone

CENA IN CASA DI LEVI

È questa l’ultimo telero appartenente alle serie delle celebri “cene” del Veronese, realizzata per il refettorio del convento di San Giovanni e Paolo. Fu proprio quest’opera a essere al centro della “censura” attuata dal tribunale dell’Inquisizione, che aveva accusato il pittore di aver profanato l’episodio evangelico, trasformandolo in un banchetto secolare. In particolare, gli inquisitori ebbero da ridire su alcune insolite figure inserite nella scena (decisamente assenti negli eventi della Bibbia), quali: il servo che perde sangue da naso; il buffone nano con il pappagallo, e alcuni alabardieri armati “alla tedesca”. Per difendersi, il Veronese ribadì il suo diritto di arricchire la scena con ornamenti a completamento del dipinto altrimenti troppo vuoto, viste le dimensioni. 

Vista la giustificazione non troppo soddisfacente, l’artista fu costretto a cambiare il nome del telero, che, da “Ultima Cena”, divenne “Cena in Casa di Levi”.

Avendo in mente il soggetto originale, ossia l’Ultima Cena, guardando alla tavolata così animata di persone intente a discutere, viene da pensare all’analogo capolavoro di Leonardo. In effetti, in entrambi vi è una grande attenzione alla psicologia dei personaggi, malgrado le notevoli differenze. Qui abbiamo un’ambientazione tipica di una ricca corte cinquecentesca, di terra veneziana, con loggia tripartita da due ordini di archi a tutto sesto. La parete alle spalle degli invitati è completamente affrescata, e immortala uno sfondo cittadino. 

I dodici apostoli circondano Cristo, in compagnia di una folla di invitati che superano la cinquantina. Tra questi, si riconosce l’intera gerarchia sociale dell’epoca: dai servi di carnagione nera (che ci fanno capire il potere di Venezia esteso fino all’Africa), alle guardie armate, ai giullari, ai nani ubriachi che si appoggiano ai corrimani. 

In una sola scena abbiamo un sunto della società contemporanea del Veronese, che mette insieme innumerevoli tendenze. Troviamo lo schiavismo(bianco e nero), la servitù, il mondo classico, gli animali domestici, la religione (poca!) e il comico dei giullari-nani. Per non parlare, poi, dei piaceri terreni: il banchetto è l’emblema dell’abbandonarsi alle delizie della gola e del divertimento. 

Cena in casa di Levi

Francesco Hayez

Francesco Hayez

L’ARTISTA Francesco Hayez nacque nel 1791 in una famiglia poverissima, che preferì affidarlo alle cure di una zia ben più benestante, moglie del mercante d’arte Giovanni Binasco. Fu proprio quest’ultimo a capire per primo il talento artistico del giovinetto, pensando bene di introdurlo presso un restauratore, e 

Un gioco di incastri e di illusioni

Un gioco di incastri e di illusioni

Se passaste per Via Torino, e non foste troppo carichi di pacchetti e pacchettini, vi consiglio di fermarvi proprio in cima, a due passi dal Duomo. Non per entrare in uno dei soliti negozi (di quelli ne trovate di meglio altrove…), ma per abbandonare il 

Chiesa di Santa Maria presso San Satiro

Chiesa di Santa Maria presso San Satiro

LA STORIA 

Si dice che già nel V secolo, quando ancora al posto di Via Torino c’erano pascoli e piena campagna, qui sorgesse una piccola cappellina annessa a un cimitero.

Nel IX secolo, il vescovo Ansperto fondò la chiesetta di San Satiro, in una terra di sue proprietà. La struttura originaria non era niente di più di una pianta centrale, con sacello e torre campanaria. Quest’ultima, giunta fino a noi oggi, si può definire il più antico campanile di Milano dopo quello di Sant’Ambrogio.

Un’altra data importante è quella del 1242, quando la chiesa divenne un luogo di grande devozione a seguito di un evento miracoloso. Allora, infatti, l’immagine della Madonna con il Bambino che era raffigurata su un altarino esterno fu colpita da un pazzo disperato. La pugnalata ricevuta dalla figura sacra bastò per farla sanguinare letteralmente. Ecco il miracolo; miracolo che portò alla nascita della Confraternita di San Satiro, e alla grande devozione nei confronti di quell’icona della Vergine così preziosa. Curioso è il fatto che, approfittando dell’evento miracoloso, non si mancò di far “aggiungere” all’interno dell’immagine stessa anche due personaggi di spicco del tempo: Gian Galeazzo Visconti e Bona di Savoia. Una free-riding pubblicitario ante-litteram molto ben riuscito…!

Fu sempre il Gian Galeazzo a commissionare la costruzione della chiesa di Santa Maria (all’interno della quale fu annessa la precedente San Satiro) nel 1480. L’architetto a cui volle affidare l’opera era un grande personaggio del tempo: il Bramante. Questi non solo rimaneggiò i progetti originali, decidendo di rivolgere l’abside in direzione di via Falcone, per lasciare spazio ai pellegrini, ma escogitò anche quella trovata incredibile per far apparire un enorme coro, laddove non vi erano che pochi centimetri di spazio. Ed è proprio per questo capolavoro di trompe l’oeuil illusionisticoche la Chiesa di San Satiro è tutt’oggi famosa in tutta la città di Milano (e non solo).

LA STRUTTURA

La chiesa è a piante longitudinale, con una forma particolare a “croce commissa”, ossia a T. il motivo è facilmente intuibile: non c’era spazio per costruire anche la parte restante del braccio verticale!

Abbiamo tre navate, di cui quella centrale più ampia e coperta da volte a botte decorate con finti lacunari. Completa il tutto il campanile e l’antico Sacello di San Satiro.

In quanto opera bramantesca, si nota il senso di unità che pervade tutta la struttura, malgrado le grandi difficoltà che l’architetto abbia dovuto superare, per poter adattare la chiesa a certi spazi decisamente “sacrificati”. Per fortuna, la sua abilità, tanto architettonica, quanto pittorica, gli fu d’aiuto per armonizzare l’interno in modo così perfettamente illusorio da parer più vero del vero!

IL CORO

Appena entrati nella chiesa, subito ci si stupisce davanti a quel Coro così realisticamente dipinto, da sembrare autentico. È così che l’impianto centralizzato della struttura sembra perfettamente in armonia: la cupola al centro del transetto appare (come dovrebbe) nel mezzo dell’intera pianta, che si suppone continui anche oltre l’altare. Eppure, è tutto un’illusione. Quei metri di spazio che finirebbero per invadere la retrostante Via Falcone, in realtà, non sono che 90 centimetri di stucco dipinto. Uno stucco che assume la funzione di “supporto psicologico” all’equilibrio della cupola, che altrimenti sarebbe apparsa molto precaria e scoordinata. Infatti, essa richiederebbe delle strutture ampie su tutti i lati: cosa impossibile, visti gli spazi esigui dedicati alla chiesa. 

Poco male, l’abilità pittorica e prospettica del Bramante riuscì a riequilibrare la maestosità dell’ambiente, realizzando un trompe l’oeuil che ricrea l’idea della pianta a croce greca.

In aiuto dell’illusione ottica vennero senza dubbio le ricchissime decorazioni, fatte di stucchi dipinti, e di colori brillanti. 

Cosa potrebbe mai aver voluto raffigurare al centro del Coro? Semplice: quel miracolo che segnò la storia di tutta la chiesa. Aguzzate la vista, e vedrete narrata la storia dell’effigie della Vergine, pugnalata da un tale signor Massanzio, impazzito per chissà quale motivo. 

Chiesa di Santa Maria delle Grazie

Chiesa di Santa Maria delle Grazie

LA STORIA  La chiesa sorse sui terreni in origine appartenuti al conte Gaspare di Vimercate, comandante delle milizie di Francesco Sforza. Questo, infatti, su richiesta dei domenicani, aveva concesso loro un fazzoletto di terra “in suburbio di porte Verceline”, in cui poter realizzare il loro convento.