Dal maggio 2015, anno ricordato dai milanesi come quello della grande Esposizione Universale dedicata al mangiare, nel Castello Sforzesco c’è un undicesimo museo ad aggiungersi al restante ricco repertorio. Si tratta del Museo della Pietà Rondanini, finalmente esposta dignitosamente in tutto il suo fascino di …
C’è una chiesa, a Milano, che per essere visitata richiede tanta pazienza. Moltissima. Richiede pazienza nel trovare l’orario giusto a cui trovarla aperta: solo tre giorni a settimana (lunedì, martedì e mercoledì), e con orari curiosamente variabili. A seconda dell’estro dei volontari che, con altrettanta pazienza, si offrono di …
Entrando nella sala XXXIV della Pinacoteca di Brera, si può avere un’idea di quelle che dovessero essere le tendenze artistiche della città nel pieno Settecento. Era l’epoca dell’Illuminismo, della riscoperta del passato greco e latino con il Neoclassicismo, del noto “Grand Tour”, intrapreso dai rampolli di tutta Europa. Milano, a quei tempi, si trovava a essere un centro cosmopolita almeno quanto le altre capitali del Mezzogiorno, quali Napoli e Roma.
Tuttavia, parlando di artisti, era al contempo sfornita di talenti autoctoni, costretta a importarne da altri luoghi d’Italia. Tra questi, compare il nome di Pompeo Batoni, la cui “Madonna con il Bambino e i Santi Giuseppe e Zaccaria, Elisabetta e Giovannino” è visibile tutt’oggi nella citata sala braidense.
Viene subito da chiedersi che fossi costui. Furono tanti gli artisti del Settecento, raccolti sotto il comune denominatore del “Grand Tour” o del Classicismo romano, da far passare i singoli nomi (e non solo) in secondo piano. Nondimeno, una volta identificato, verrà naturale ricordarlo come una sorta di “nuovo Raffaello” settecentesco.
Non a caso, il Batoni, di origini lucchesi, appena trasferito a Roma cominciò a studiare sulle opere di Raffaello e di Annibale Carracci. Dal primo apprese i colorismi vivi e la dolcezza delle espressioni; dall’altro le composizioni delle scene e l’animo dei movimenti.
La sua specialità, però, non fu subito legata ai temi religiosi (come era per Raffaello), quanto piuttosto ai ritratti. Ritratti di quei giovani aristocratici inglesi, che giungevano a Roma per una delle tappe più importanti del loro viaggio in Italia.
Vedendolo attivo e prolifico nel Lazio, ai frati girolamini della chiesa dei santi Cosimo e Damiano (un tempo vicino alla Scala) venne l’idea di chiamarlo su a Milano, commissionandogli una pala per loro. E il Batoni non fu l’unico a essere invitato in Lombardia: con lui, giunsero anche altri celebri nomi, quali Bellotto, Bottani, Tiepolo e Subleyras. In breve, il Classicismo romano fu esportato nella città milanese, lasciando testimonianze pittoriche di altissimo livello. A Brera, spiccano la pala di Batoni, realizzata proprio per i girolamini, e la compagna di Bottani, che era in origine destinata ad adornare lo stesso edificio di culto.
Se si osserva quella Madonna scaturita dal pennello del lucchese, avendo in mente (almeno un po’!) lo stile di Raffaello, lo si può ritrovare in quei colori particolarmente caldi e pastello, come in quelle espressioni, delicate all’inverosimile. Per non parlare, poi, del gruppo di angioletti racchiusi in una “mandorla” alla sommità: le loro pose riprendono molto l’originale raffaellita. Considerando che lo stesso Batoni si dichiarava speranzoso di diventare al pari del “divino Raffaello”, pittore da lui particolarmente amato, il legame tra i due appare ancora più lampante. Quest’opera specifica, poi, è sicuramente quella che più riprende il maestro rinascimentale; motivo in più per essere grati a chi la volle in Pinacoteca.
… E chi fu, dunque, a volerla lì, a Brera? Il soggetto in questione era Carlo Bianconi, segretario dell’Accademia di Brera a fine Settecento. Egli aveva capito come, ormai, i pittori romani come Batoni e gli altri suoi colleghi erano diventati un nuovo modello di stile da seguire. Si faceva, dunque, necessario avere qualche esemplare delle loro opere a disposizione degli studenti milanesi, perché potessero apprendere quel Neoclassicismo in piena diffusione. E così, fin dal 1797, anno di soppressione dell’ordine dei girolamini, cominciò a promuovere il trasferimento della pala di Batoni, riuscendo presto nel suoi intento. Grazie a questa volontà lungimirante di arricchire la collezione braidense con il dipinto di Batoni più raffaellesco, si può davvero apprezzarne il suo lato di “nuovo Raffaello”, quale, se lo credete, potreste oggi definirlo davvero.
In tempo pasquale, torna sempre la voglia di sedersi attorno alla tavola dell’Ultima Cena, meditando su questo tema dai mille sapori e sfaccettature. Non serve essere credenti per lasciarsi stuzzicare da un’immagine di quell’evento ricco di significato e spunti profondi. L’appetito di curiosità e cultura …
Quante volte avete ordinato dal menù del ristorante quel celebre piatto di carne cruda chiamato “Carpaccio”? Quante volte ve lo siete ritrovato scritto sulla carta con l’iniziale minuscola, pensando si trattasse di una di quelle versioni dispregiative di un qualche termine dialettale? Ebbene, è il …
Ogni volta che si fa visita alla maestosa dimora milanese dei Necchi Campiglio, ne si scopre un tesoro diverso. A volte, le sue stanze ci fanno viaggiare lontano, fino a vedere i riflessi del Sol Levante che luccicano sulle porcellane cinesi. Altre volte, invece, sono i dipinti a guidarci all’avventura, mostrandoci scorci pittoreschi che non ci saremmo aspettati di trovare lì.
Basta affidarsi ai motivi architettonici a losanghe di Piero Portaluppi (architetto della villa), per far correre la mente tra storie affascinanti di vita passata…
Oggi, i nostri passi ci conducono fino alla Camera della Principessa, situata al primo piano della casa. Varcata la soglia, l’atmosfera portaluppiana scompare, sostituita dallo stile Luigi XVI. Ci si potrebbe chiedere come mai. Ebbene, questa stanza rievoca quella che doveva essere la dimora dei signori Alighiero ed Emilietta de’ Micheli.
Ci si potrebbe chiedere, ora, chi siano costoro. Si tratta di due coniugi collezionisti, che nel 1995 lasciarono le loro preziose opere al FAI. Si è pensato di far onore al loro ricordo, ricostruendo il contorno originale della raccolta di dipinti da loro donata. Certo, è un mobilio decisamente diverso dal minimalismo pulito del Portaluppi… tuttavia, è ben in tinta con quanto si scorge nelle cornici.
Ed è proprio a una di quelle cornici che ci vogliamo avvicinare.
“Veduta del Canal Grande verso occidente con la chiesa della Salute” – questo è il titolo che non compare su nessuna targhetta (forse sarebbe il caso di appenderlo!), ma che si collega alla veduta in questione.
L’autore è Giovanni Antonio Canal, meglio noto come Canaletto. E la datazione è riconducibile al 1735: periodo di gran fiorire di produzione dell’artista.
Se vi avvicinate un poco, potrete quasi sentire l’aria della laguna che vi solletica il viso. È una giornata di sole, come le tipiche atmosfere in cui l’autore amava immortalare la sua città. È una giornata di quiete, senza troppa folla a occupare il calale, ma in cui non mancano i gondolieri intenti a svolgere le loro pratiche quotidiane. C’è chi rema, chi ormeggia la sua bagnarola lignea, e chi passeggia tranquillamente sulla riva, godendosi il tepore delicato. Sulla sinistra compare la chiesa di Santa Maria della salute; considerando la posizione del sole, potrebbe essere l’ora della messa di una bella domenica mattina. Niente vento, qualche increspatura sulla superficie dell’acqua, e l’immancabile luce chiara e cristallina che delinea tutto il profilo della Serenissima.
Stiamo ammirando uno scorcio del Canal Grande: oltre alla chiesa citata, si riconoscono sul fondo Palazzo Giustiniani, Palazzo Erizzo e persino il campanile di San Marco. Non manca nessuno: tutto ciò che poteva essere incluso nella veduta è stato dipinto. Come al Canaletto piaceva molto fare, la realtà è riprodotta in modo fotografico, ma non troppo. Noterete gran cura nei dettagli, ancor più attenzione nella resa luministica, ma, se siete attenti, qualche licenza poetica in termini di spazialità. Se vi recate sul posto, a Venezia, sarà spesso difficile catturare in solo colpo d’occhio tutto ciò che l’artista includeva in una sola tela. Amava giocare con gli edifici, talvolta stringendoli un po’ più, cosicché ci stessero tutti quanti, e riempissero il suo capolavoro di forme e colori.
Già che siamo impalati davanti a questa splendida tela settecentesca, vale la pena ricordare un altro trucco nascosto nella tecnica canalettiana. La camera oscura.
Camera oscura, come quella che si usa tutt’oggi nelle macchine fotografiche tradizionali. Dovete immaginarvi il Canaletto a spasso per Venezia con questo curioso marchingegno, simile a una scatola, che faceva penetrare da un buchetto un raggio di luce, lo faceva rimbalzare su un paio di specchi, e poi lo proiettava su una superficie esterna. Superficie che, nel caso del pittore, non era una pellicola, ma un foglio di carta. Sfruttando l’immagine comparsa sulla pagina, egli la ricalcava a matita e penna, realizzando uno schizzo dalle proporzioni perfette. Poi, se voleva includere ancor più edifici, spostava la camera, e prolungava la veduta, come se stesse utilizzando uno dei nostri obbiettivi grandangolari.
Il vero dipinto, però, si costruiva in studio. È nel suo atelier, che questo scorcio del Canal Grande prese vita, tingendosi di tutte le sue sfumature grigio-azzurre. Prima comparirono gli edifici, e poi le curiose macchiette di veneziani affaccendati in primo piano.
Grazie a questa tecnica modernissima, il Canaletto era capace di far affacciare anche osservatori molto lontani (nello spazio e nel tempo) sui canali della sua amata Venezia.
Ed è così che, anche noi, rimanendo con i piedi nella Camera della Principessa di Villa Necchi, possiamo volgere il nostro sguardo in direzione della Serenissima. Possiamo rimanere affascinati da quelle chiare luci mattutine, che rimbalzano sugli edifici, fino a uscire dal dipinto, e fermarsi sulle ricche porcellane svettanti sulla parete. Non c’è atmosfera più adatta per rievocare i fasti settecenteschi della città dei dogi…
L’ARTISTA Chiariamolo subito: il celebre piatto denominato “Carpaccio” deriva proprio da questo artista veneziano. Nel 1950, Giuseppe Cipriani, proprietario dell’Harry’s Bar di Venezia, inventò questo secondo a base di carne cruda, ispirandosi a un quadro del Carpaccio. Sosteneva che il suo colore rosso-violaceo ricordasse molto …
Fin dal 1610 (con una breve pausa di 20 anni), la veneranda Pinacoteca Ambrosiana di Milano ospita un schizzo molto speciale. Normalmente, ci si aspetterebbe che gli schizzi, in quanto disegni preparatori, siano qualcosa di frettoloso e poco definito. Oggi, questa idea è ancor più …
Dovete pensare ad Antonello come a un nodo marinaro. Un punto d’unione di due estremità essenziali, separate da uno specchio d’acqua marina. Nella sua pittura, l’arte del Rinascimento italiano si fonde con il mondo dei Fiamminghi. Le Fiandre affacciate sulla costa oceanica si congiungono, circumnavigando il continente, al cuore del Mediterraneo e alla Laguna veneta. E possiamo anche dire esattamente dove avvenne questo incontro: parliamo di un porto siciliano. Il porto di Messina…
Antonio de Antonio (avevano poca fantasia in famiglia), figlio di Giovanni de Antonio, nacque a Messina attorno al 1430. Fino al secolo scorso, pochissimo si sapeva su di lui. Poi, nel 1925, si ritrovò un antico documento cinquecentesco, che ci riporta la situazione artistica napoletana del tempo. Da lì apprendiamo che Antonello fu uno dei migliori allievi di un tale Colantonio: artista che aveva bottega a Napoli, e che faceva uso della pittura a olio. Tale tecnica, anche se oggi pare scontata, allora non lo era affatto. Fu inventata dai Fiamminghi, che furono i primi a capire che, se si mescolavano i pigmenti con olio di lino o di papavero, si poteva ottenere un effetto di brillantezza impareggiabile, senza rinunciare a ridotti tempi di asciugatura.
Colantonio era uno dei pochi maestri d’Italia che aveva avuto l’occasione di scoprire questa nuova tecnica, osservandola presso la corte napoletana di Renato d’Angiò, che era grande appassionato di pittura. Fu una fortuna, per il giovane Antonello, trovarsi a bottega proprio presso questo artista dal carattere tipicamente fiammingo. Dopo un primo periodo di formazione in terra siciliana, tra Messina e Palermo, lì, a Napoli, imparò tutto ciò che c’era da sapere sui lavori provenienti dal Nord Europa. Un contributo notevole alla conoscenza dei Fiamminghi venne certo dal suddetto re della città, che pareva avesse una ricchissima collezione di opere delle Fiandre. Tecnica a olio, attenzione ai dettagli, passione per i paesaggi e i piccoli oggetti quotidiani: questi gli elementi che il messinese fece propri da quell’arte tanto particolare. Senza dimenticare, poi, la ritrattistica. Ciò per cui egli divenne più celebre erano quei volti tanto umani e introspettivi, immortalati di tre quarti, da vicino, che raccontavano molto dei rispettivi proprietari.
La formazione di Antonello, però, non si fermò nel Mezzogiorno, ma proseguì risalendo la penisola fino a nord, con l’arrivo al porto di Venezia. Il nodo marinaro che metaforicamente abbiamo citato si completa qui, quando le navi fiamminghe, già accostate a quelle napoletane e siciliane, incontrano anche le acque della Serenissima.
La Laguna e i suoi dintorni conferirono al pittore ciò che ancora gli mancava: l’abilità nel giocare con lo spazio e la prospettiva. Le atmosfere di immobile intellettualismo e rigore geometrico di Piero della Francesca ebbero il loro effetto sulla sua mano, che divenne precisa quanto il collega sansepolcrino.
Se vogliamo essere onesti, dobbiamo anche dire che il contributo antonelliano all’arte locale fu tale da superare, forse, ciò che egli conquistò per sé. Se tanto aveva imparato dai Veneziani, tanto lasciò ai posteri, che ripresero la sua pittura tonale, rendendola il cuore del loro Rinascimento.
Nel corso della sua vita, malgrado i viaggi attorno alla penisola, non si dimenticò mai della sua terra natale. Messina, con le sue basse colline imbiondite, e il suo mare aperto in direzione delle Eolie, compare spesso negli sfondi dei suoi dipinti. Particolarissimo, per non dire unico, è il suo applicare lo stile fiammingo ai paesaggi della sua amata Sicilia, che ci sono restituiti nei loro più piccoli dettagli.
Dopo Venezia, i passi di Antonello lasciarono impronte a Roma, poi in Toscana, e nelle Marche. In quest’ultima terra ebbe certo modo di approfondire la sua conoscenza di Piero della Francesca, assorbendone ancor più la sapiente prospettiva.
Malgrado i tentativi di invito (tutti vani) a Milano da parte di Galeazzo Maria Sforza, che era rimasto affascinato dai suoi ritratti, il pittore preferì sempre girovagare nel Mezzogiorno, stabilendosi infine nella sua Messina. Lì morì nel 1479, senza mai riuscire a creare una sua scuola, ma lasciando un’eredità artistica infinita a tutti coloro che lo avrebbero succeduto…
LA SUA PITTURA
La metafora del nodo marinaro che unisce la costa fiamminga ai porti del Mediterraneo italiano torna buona anche qui. La pittura di Antonello è il compendio perfetto di ciò che inventarono i maestri su al nord, e dei guadagni del Rinascimento di inizio ‘400.
Partiamo dalle Fiandre, e dalle innovazioni che circolavano in quel periodo in quelle terre. La loro più grande scoperta fu senza dubbio la pittura a olio, tanto rapida quanto brillante nei colori. Il nostro artista la scoprì a Napoli, pensando bene di mescolarla, dapprima, con la tempera tradizionale. Immaginatevi i primi strati di tempera all’uovo, e le rifiniture successive caratterizzate da impeccabili effetti luministici e trasparenze. Tutto merito dell’olio di lino, che permetteva di descrivere la realtà nei suoi minimi dettagli e giochi di luce.
E sono proprio i dettagli e la luce, il secondo lascito dei Fiamminghi. Tutti quegli oggetti che notate accanto ai protagonisti delle tele antonelliane erano ispirati a loro. Lo stesso vale per quei minuscoli passanti che si affaccendano negli sfondi, oppure per quel curioso bestiario, che ogni tanto appare a riempire i bordi delle scene. E vale ancora per la resa luministica, tanto pura e democratica, che dà pari importanza a figure umane e inanimate.
L’influenza continuava nell’ambito della ritrattistica. La posa di tre quarti, da un punto di vista molto ravvicinato, era tipicamente nordica. Ne risultavano effigi immensamente espressive, vive, enigmatiche, che esortano noi osservatori ad accennare il primo saluto.
Con i cari pittori delle Fiandre, abbiamo finito.
Approdiamo nei porti mediterranei, per ritrovare gli altri insegnamenti che Antonello riuscì a integrare nelle sue opere. Il grande nome che si rispecchia nell’applicazione sapiente della prospettiva è Piero della Francesca. Durante il soggiorno marchigiano, i suoi rigori geometrici corressero quelle imperfezioni spaziali che caratterizzavano i nordici. Ed ecco che le tele toccarono davvero il culmine della perfezione…
L’ultima nota sulla pittura antonelliana sono le ambientazioni. Da buon italiano, radicato nella sua terra fin nel profondo, anche lui non tradì mai la sua città natale. Ogni volta che scorgete un paesaggio, in qualche modo ci ritroverete Messina. Messina con le sue collinette dolci; Messina con il suo popolino affaccendato; Messina con il suo specchio d’acqua mediterranea che si disperde all’orizzonte.
LE OPERE
LA VERGINE LEGGENTE
Lo sguardo enigmatico della Vergine pensosa carpisce subito l’osservatore. Silenziosa, distoglie per un attimo l’attenzione dal libro che reca tra le mani, per rivolgersi al nuovo venuto. Sarà l’Arcangelo Gabriele, giunto per dare il suo annuncio? Chissà…
Misterioso l’autore, e misteriosa è anche l’opera in questione. Non sappiamo con certezza quando fu realizzata; a giudicare dallo stile, ancora piuttosto acerbo, gli esperti la riconducono al suo periodo giovanile, trascorso tra Napoli e la Sicilia. 1460, come dice la didascalia.
Per comprenderlo al meglio, occorre ricordare ciò che la mano messinese assorbì in quegli anni di apprendimento. Tra il 1445 e il 1455, Antonello lasciò la sua terra natia, per giungere nella più popolosa metropoli del tempo: Napoli. Laggiù, erano tempi in cui la pittura fiamminga era molto di moda, giunta con quei capolavori che il re d’Angiò vantava nella sua ricca collezione personale. Il ritratto di tre quarti, ravvicinato, e immensamente introspettivo, è tutto ripreso dal nord. Qui ne vedete un chiaro esempio, declinato in una Madonna pensosa, che sa ciò che le aspetta, e si sottomette alla volontà divina.
Anche la tecnica è molto curiosa: un misto di tempera e pittura a olio, che permise al maestro di curare anche i piccoli dettagli e le sfumature luministiche. Su tutto domina quel velo bianco, simbolo matrimoniale, che le ricade sulle spalle in modo molto analogo a quello di Van Der Wayden nel suo Ritratto di donna.
La coroncina ingioiellata, che gli angeli stanno per posare sul capo della Vergine, è ripresa da Van Eyck. Notate il suo contenuto: gigli bianchi, rose rosse e campanule. Simboli di purezza, Passione e lutto. Già il destino della leggente è impresso nel linguaggio dei fiori.
Vergine lèggente
SAN GIROLAMO NEL SUO STUDIO
L’opera risale circa al 1475; se non conosceste l’identità del suo protagonista, collochereste la scena nella contemporaneità di allora.
Eppure, siamo alla presenza di un santo; un santo dalla storia duplice e assai importante. San Girolamo è ricordato nell’iconografia artistica in due modi molto diversi, che richiamano le due fasi della sua vita. La prima lo ritrae molto anziano, magrissimo, con i vestiti a brandelli, mentre si aggira in un deserto spoglio e roccioso, in compagnia di un leone. Era il periodo che Girolamo trascorse in penitenza, nel mezzo del deserto siriano. La tradizione vuole che, un giorno, avendo incontrato un leone ferito, fu mosso a compassione, e lo salvò, togliendogli una spina malefica che gli era rimasta conficcata in una zampa. La bestiola, al posto di sbranarlo, gli fu immensamente grata, e divenne suo fedele compagno di viaggio.
Passiamo alla seconda raffigurazione, la prediletta nel Rinascimento. Essa fa riferimento alla sua attività di studioso, e dotto conoscitore di Greco, Latino ed Ebraico. Fu lui che, intorno al 400 d.C., si impegnò a tradurre in latino l’Antico Testamento, rendendo il testo disponibile al popolo europeo. La sua versione, definita “Vulgata”, fu quella riconosciuta come ufficiale dal concilio di Trento del ‘500, che la rese la base dell’insegnamento cristiano per molti secoli.
Evidentemente, nell’opera di Antonello, San Girolamo è immortalato seguendo questa seconda iconografia. Non manca, però, un rimando al suo periodo di penitenza… ma cominciamo ad analizzare con ordine questa ricca scena, e arriveremo anche a quello.
Ci troviamo in un pittoresco interno dal sapore gotico, che potrebbe essere benissimo una di quelle chiese aragonesi disperse nel Sud Italia. Se ve lo foste dimenticati, vale la pena ricordare che Antonello amava infarcire i suoi dipinti di rimandi alla sua terra mediterranea. Straordinaria è la prospettiva: il rigore geometrico di Piero della Francesca è applicato alla lettera, reso virtuosisticamente con quel pavimento di maioliche. Maioliche siciliane, ovviamente!
Se, poi, vi affacciate alle finestre, vi parrà di scorgere qualche paesaggio del Mezzogiorno; è una di quelle giornate di primavera, calde ma non troppo, in cui la luce si posa sulle colline, sbiancando il cielo all’orizzonte.
Il gusto per il dettaglio fiammingo è riscontrabile ovunque: dalla natura all’esterno, alle due piantine solitarie che adornano lo scrittoio centrale.
E passiamo giusto ad analizzare lo scrittoio. Uno scrittoio di lusso, con tanto di scaletta, leggìo inclinato per favorire la mano, e scaffalature brulicanti di oggetti. Lo si potrebbe definire un vero oggetto d’arredo architettonico, da far invidia ai più moderni designer. Protagonisti sono i libri: ce ne sono sul piano, così come sulle mensole. L’iconografia di san Girolamo, in quanto sapiente traduttore dell’Antico Testamento, è qui esplicitata in modo evidente. Se ci curassimo solo dello scrittoio, dimenticherebbero il suo lato “eremitico”.
Il nostro santo, però, non è solo soletto nella sua chiesa gotica. A fargli compagnia troviamo un ricco bestiario assai curioso. In primo piano, poggiati su quella che sembra una cornice architettonica del dipinto, sono poggiati due pennuti variopinti. A sinistra vi è una pernice, che allude alla fedeltà a Cristo; a destra un bel pavone, simbolo di sapienza divina. L’acqua nel bacile richiamerebbe l’idea della purezza.
… Fedeltà, sapienza e purezza: tre virtù riconducibili al san Girolamo protagonista. Ma vi dico di più. Tutti e tre gli elementi possiedono anche un secondo significato, ossia, rispettivamente, stoltezza, superbia e vanità. Se vi affidate a questa seconda lettura, dovete vedere pernice, pavone e catino, come se si trovassero fuori dall’ambiente in cui si trova il santo, e a lui del tutto estranei.
Proseguiamo con gli animali, stuzzicando il gattino che sonnecchia accanto allo scrittoio; potrebbe ricordare gli istinti bestiali da cui un santo sa bene che deve stare alla larga.
Infine, ecco la bestiolina (per modo di dire…) che rivela l’eremitaggio nel deserto di Girolamo. Il leone. Quel leone a cui egli tolse la spina, e che divenne un po’ come il suo cagnolino fedele. Lo trovate a destra dello scrittoio, avvolto nell’ombra, mentre si aggira furtivo, quasi sorvegliasse il padrone. Le dimensioni canine non facilitano il riconoscimento… ma è proprio lui: il feroce leone delle terre rocciose della Siria!
Più si guarda questo dipinto, e più si scoprono storie da raccontare. Tutta colpa dei dettagli alla fiamminga, che non finiscono mai di fornire all’occhio materiale su cui pontificare. Tutta colpa, anche, di quel santo scrivente, che induce a imitarlo, e a scrivere fiumi di inchiostro a nostra volta…
(Ma abbiamo finito, promesso!)
San Girolamo nello studio
SALVATOR MUNDI
A prima vista, potrebbe essere l’opera di un pittore fiammingo. Di Petrus Christus, magari, ossia di uno dei maggiori importatori dell’arte delle Fiandre in Italia.
Il Cristo Salvatore è raffigurato come fosse un ritratto nordico di un borghese del posto; solo la mano benedicente tradisce la sua sacra identità. Sfondo scuro, da cui emerge il soggetto reso con luci e colori tiepidi; punto di vista ravvicinato, e minuziosi particolari. Tutto fiammingo… manca solo la posa di tre quarti!
Tuttavia, se vogliamo essere sinceri, Antonello seppe anche aggiungere alcuni elementi della tradizione italiana. Si notano ancora oggi le correzioni successive che apportò al dipinto, come se ci avesse ripensato, e avesse deciso di distaccarsi dalla ritrattistica eccessivamente nordica. Per accentuare la profondità dello spazio (assente nel modello fiammingo), il messinese spostò la mano destra di Cristo in avanti. Pensò anche di introdurre una vistosa piega del colletto, così da creare un certo movimento… dettaglio dissonante, rispetto all’immobilità delle atmosfere dei suoi maestri.
Salvator Mundi
LA VERGINE ANNUNCIATA
Se la definiamo annunciata, significa che l’annuncio è appena avvenuto. L’Arcangelo Gabriele ha fatto il suo ingresso nella stanza buia, e ha comunicato alla fanciulla il suo prossimo futuro. Se la osservate in volto, non sembra particolarmente sconvolta; piuttosto, è pensosa, meditativa… ha già accettato il suo arduo compito. La mano destra si allontana dal leggio, sospesa a mezz’aria, come se tutta la sorpresa del messaggio divino si fosse concentrata in quel gesto. Una mano esprime stupore, e l’altra pudicizia. La sinistra, infatti, si stringe il velo al petto, con un contegno di estremo riserbo.
Poiché è impossibile comprendere davvero i suoi pensieri, tanto è enigmatico il suo sguardo, conviene concentrarci più sull’analisi di quest’opera straordinaria.
Tra i ritratti di Antonello, la Vergine Annunciata è uno dei suoi maggiori risultati: qui, le conquiste fiamminghe e quelle italiane si fondono, in un complesso di monumentalità, razionalismo e dettaglio. Tanto è intensa l’espressione delle Madonna, e tanto è sospesa quella posa catturata in un istante infinito, che ci sembra di essere davanti a una finestra su un mondo atemporale.
Il gusto fiammingo si nota nella posa di tre quarti, nel mezzobusto ravvicinato, e in quell’atmosfera immobile e ambigua, che tanto affascina l’osservatore. In aggiunta, c’è il leggio, in sapiente scorcio prospettico, che dà profondità a tutta la scena.
Ciò che doveva essere davvero nuovo e straordinario agli osservatori italiani dell’epoca, era la resa delle velature e dei dettagli. Fino ad allora, i ritratti a tempera avevano impedito un simile realismo. Poi, arrivò Antonello, che con l’olio di lino cominciò a immortalare veri brandelli di carne e ossa. Dal Nord riprese la tecnica materiale, ma non la naturalezza: quella era tutta sua. L’umanità, raccolta nella tradizione mediterranea, lo aiutò a elaborare questo capolavoro di luce, psicologia e prospettiva. L’unione di Italia e Fiandre è qui esemplificata in questa giovane donna sospesa nel suo velo azzurro, colta nell’accogliere misticamente la sua chiamata.
Annunciata
LA CROCIFISSIONE (SIBIU)
Delle tre versioni della Crocifissione, questa qui è probabilmente la prima, datata intorno al 1463. La prima, e la più affascinante in quanto a paesaggio di contesto.
Adottando una soluzione che ripeterà anche nella tela di Anversa, Antonello si distacca dalla canonica iconografia, appendendo i due ladroni non a croci, bensì a tronchi di legno mozzati. Ne risultano pose scomposte, che movimentano l’immobile staticità del Cristo. Sempre mettendo a confronto le due, qui notiamo anche una folla di dolenti più ampia: abbiamo la Vergine e la Maddalena (quella con i capelli rossi) a sinistra, mentre a destra vi sono San Giovanni disperato rivolto verso la croce, e due pie donne in sofferenza. Queste ultime, sono con ogni probabilità Maria moglie di Giacomo e Maria moglie di Cleofa.
Ma passiamo allo sfondo: vero capolavoro nel capolavoro. Se non avesse titolo di Crocifissione, sarebbe una veduta di Messina degna di esistere come dipinto di paesaggio a sé stante. Come sostengono gli storici, quello che vedete in lontananza è il porto a forma di falce della cittadina siciliana affacciata sullo Stretto. In mezzo allo specchio d’acqua, pare di distinguere persino le Isole Eolie! Le colline sono rese in modo esemplare, con tinte dorate, che si sciolgono nel pallido grigio-azzurro in lontananza. C’è una certa prospettiva aerea che pare leonardesca. Poi, passando a mezza distanza, ecco comparire tutto il popolino dei messinesi, che si affaccendano nelle loro occupazioni quotidiane, ignari di ciò che accade in primo piano. Potrebbe essere benissimo una qualsiasi giornata estiva sulla costa siciliana: la gente chiacchiera fuori casa, porta a spasso gli animali, o si appresta a scaricare il pescato della notte. Eppure, un grande evento è accaduto a poca distanza…
Il legametra Antonello e la sua terra natìa emerge in ogni pennellata di questo dipinto. Messina fa sentire così tanto la sua presenza, da rubare quasi la scena al Crocifisso. Probabilmente, quando si trovò a dipingere quest’opera, sentiva una grande nostalgia di casa. La Sicilia e i suoi colori tostati dal sole del Mezzogiorno emergono almeno quanto le lezioni dei maestri Fiamminghi. La parte inferiore, con il Golgota disseminato di teschi, è ispirata ai tipici Calvari nordici; lo sfondo, invece, è di sapore italiano; meglio: mediterraneo. Anche le pose un po’ scomposte e indipendenti l’una dall’altra rimandano ai lavori delle Fiandre, fatti per essere osservati “a pezzetti”, come fossero piccoli scorci autonomi di realtà. Ciò che più viene voglia di osservare, però, rimane quel paesaggio siciliano, che invita a percorrere la stradicciola affollata, per poi prendere una barca e salpare verso la sponda opposta…
Crocifissione Sibiu
LA CROCIFISSIONE (ANVERSA)
A prima vista, il paesaggio che si scorge alle spalle del Golgota sembrerebbe una campagna marittima qualsiasi. Sapendo, però, che si tratta di un’opera di Antonello, possiamo affermare con discreta convinzione che si tratti dello stretto di Messina, circondato dalle colline della valle del torrente Camaro. Ad avvalorare questa tesi ci sono gli studi più recenti, che si sono giusto giusto dedicati all’identificazione dei paesaggi antonelliani.
Inquadrata la scena nei dintorni messinesi, immaginiamo di percorre una delle sue stradine, che dal mare volgono in direzione opposta. Lungo il cammino, vedremo qualche animaletto selvatico, le rovine di un antico edificio, e un vecchio castello ormai abbandonato. Non che essi siano veramente presenti fuori da Messina; si tratta di una serie di rimandi all’antico, che tanto piaceva includere ai Veneziani nei loro sfondi. Dal momento che Antonello soggiornò a lungo a Venezia, ebbe modo di appassionarsi anche lui a questa moda pittorica del tempo…
Fermiamo infine i nostri passi sul primo piano. Un monticello brullo, pari al Golgota descritto nei Vangeli, su cui se ne stanno impiantate tre croci. Quella al centro, di forma canonica, ospita il corpo di Cristo, che Maria e San Giovanni sono intenti a piangere dalla loro posizione terrena. Questi tre soggetti, assieme al paesaggio, sono tipicamente fiamminghi. Fiamminghi i dettagli con cui è narrato lo scorcio messinese, e fiamminghi anche gli abiti dei due dolenti (guardate la scarpetta appuntita di Giovanni…). Ciò che è curiosamente nuovo, invece, sono gli altri due ladroni crocifissi, che se ne stanno appesi in posizioni contorte a dei tronchi d’albero.
Infine, tutt’attorno ci sono simboli che presagiscono la morte. Il gufo, il serpente, e il teschio di Adamo. Il proscenio è un pullulare di oggetti dal gusto ancora nordico, che comunicano tutti i non detti all’osservatore. C’è persino un piccolo cartiglio, appeso a un’asse spezzata sulla sinistra, che riporta la firma del maestro messinese.
Crocifissione Anversa
LA CROCIFISSIONE (LONDRA)
Come si suol dire, non c’è due senza tre. Anche di Crocifissione, Antonello ne realizzò una terza versione, datata intorno al 1475, e oggi conservata a Londra. Come più e più volte visto in Antonello (si può dire che proprio gli piacesse questa soluzione!) c’è nel dipinto un piccolo cartiglio, che ci dice: “147? – Antonello da Messina mi dipinse”. Purtroppo, l’ultima cifra è cancellata, ma almeno è stata salvata la firma dell’autore.
Analogamente alle altre due versioni, lo sfondo è un paesaggio messinese, realizzato con gusto e dettagli fiamminghi. Le colline sono le solite, e anche il mare che si disperde nel chiarore dell’orizzonte. Ciò che cambia è il proscenio: mancano gli altri due ladroni, che avevamo visto appesi ai tronchi rinsecchiti. Qui, c’è solo il Cristo in croce, con la Madonna e san Giovanni che lo osservano dal basso rattristati.
Quel trio di donne collocate a mezza distanza non è ben identificato; ma è probabile che siano le tre Marie, che si incamminano in direzione del paesello.
Se guardate bene il santo ai piedi della croce, e ripescate nella memoria l’opera di Anversa, noterete qualcosa di molto, molto simile. Si tratta della scarpetta nera, lievemente appuntita, che ben potrebbe essere calzata da un popolano fiammingo. Per replicarla identica, doveva essere un modello davvero impresso nella mente di Antonello…
Se dovessimo descrivere la produzione matura del Caravaggio con una sola parola, faremmo molta fatica. Definirla Realismo sarebbe troppo poco. Il Realismo, per noi contemporanei che abbiamo vissuto le epoche artistiche successive, è riconducibile subito alla realtà contadina di Courbet. Un Realismo schietto, ma non crudo e impressionante come quello caravaggesco. Certo, …