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L’origine pittorica del Carpaccio

Quante volte avete ordinato dal menù del ristorante quel celebre piatto di carne cruda chiamato “Carpaccio”? Quante volte ve lo siete ritrovato scritto sulla carta con l’iniziale minuscola, pensando si trattasse di una di quelle versioni dispregiative di un qualche termine dialettale? Ebbene, è il momento di sciogliere i dubbi: il Carpaccio non è un “carpo” andato a male, e neppure una qualsiasi storpiatura linguistica. La sua origine onomastica ha un gusto sfiziosamente artistico, al pari del sapore del piatto stesso. Dopo aver letto questa storia, pretenderete tutti che lo si trovi scritto con la maiuscola… proprio come il cognome del pittore che ne fu l’ispirazione. 

Per indagare il passato del Carpaccio, i Milanesi sono molto fortunati: non devono neppure recarsi nella sua terra natale. Basta avere voglia di fare un giretto alla Pinacoteca di Brera, e “prenotare un tavolo” con vista sulla “Disputa di santo Stefano nel sinedrio”. Si tratta di quel dipinto di Vittore Carpaccio, collocato in fondo alla prima sala a sinistra dell’ingresso. Capite già come ci sia una certa somiglianza di nomi…

Se vi piantate davanti al quadro, potrete sentirvi nei panni del cuoco-inventore del nostro piatto: il signor Cipriani, proprietario del celeberrimo locale veneziano. Fu lui che, nei (neanche troppo) lontani anni ’50, mise a punto questa semplice ricetta. Dovendo dare un nome artistico a una pietanza di fatto banale (… portare in tavola la carne cruda condita non è una gran fatica!), pensò di lasciarsi ispirare dai grandi maestri della Serenissima. 

I racconti, più o meno veritieri, dicono che si fosse recato a visitare una mostra organizzata a quei tempi a Venezia, che aveva come soggetto principale le opere del pittore Vittore Carpaccio. L’illuminazione gli venne proprio davanti al dipinto sopra citato, che pare l’avesse colpito particolarmente. Cosa poteva avere di tanto speciale? È l’occasione per scoprirlo anche noi un po’ più nel dettaglio…

Intanto, diciamo due parole sul Carpaccio in persona. Artista veneziano di fine ‘400, fu tra i maggiori esponenti della sua epoca. Innumerevoli i suoi incarichi nelle Scuole della Serenissima: tutti lo chiamavano a dipingere teleri per narrare sulle pareti dei saloni storie di santi ricchissime di particolari. Come potete ben notare dal dipinto in questione, il Carpaccio aveva una vera passione per i dettagli: guardare una sua opera è come leggere un libro di racconti quotidiani ambientati nella Venezia del tempo. L’evento del santo (qui santo Stefano che parla ai presenti) è marginale: ciò che interessa davvero è mettere in mostra il ricco popolo dei nobili veneziani, mescolati a turchi e altri personaggi molto orientaleggianti. Dovete pensare che, a inizio Cinquecento, la Laguna era un centro cosmopolita, brulicante di mercanti e stranieri di passaggio. E, poi, c’erano quei temibili Ottomani, che minacciavano di conquistare la città, a tal punto che, nelle opere del Carpaccio, li si vede spesso personificare i “nemici” del caso. Nelle vicende sacre da lui narrate, non ci sono più i classici “pagani”, ma direttamente i “turchi”! Questi erano i messaggi nascosti nell’arte della Venezia del tempo.

Ma torniamo al nostro santo Stefano, e al nostro piatto di carne. Dove si cela il legame (oltre che nel nome dell’autore)?! Semplice: nei colori. Questo quadro in particolare, almeno a detta dl Cipriani, ha delle sfumature di rosso che ricordano molto quelle della carne cruda. Motivo per cui, ancora in meditazione sull’appellativo trionfale con cui presentare la sua creazione, lo chef decise di fissare il cognome dell’artista sulla sua carta del giorno. 

Ed è così che, ancora oggi, Vittore Carpaccio ricorre sulle nostre tavole più di quanto si possa pensare. Certo, pochi lo riconoscono davvero; ma chi sa da dove deriva il termine, potrà apprezzarne davvero il suo gusto singolare. E ancor più, il suo caratteristico colore… 

Disputa di S. Stefano

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