Fino all’invenzione della pittura a olio, avvenuta per mano dei Fiamminghi, nelle terre nordiche quattrocentesche, la tecnica più usata era la tempera. Tempera… all’uovo. Da secoli, le preparazioni oleose erano celebri per il loro essere tanto vantaggiose, quanto ben scomode da utilizzare. Pensate che, per far …
Il Bambinello era nato. Era nato anche alla Pinacoteca di Brera. Così come i pastori, secoli e secoli prima, avevano ricevuto l’annuncio da un angelo, così anche la Risolartista sentì una chiamata speciale. Osservando il presepe che aveva costruito con tanta cura sotto il suo …
Era tradizione che, in pieno periodo natalizio, si andasse a vedere quell’opera d’arte, ospitata dal Museo Diocesano in occasione delle feste. Quell’anno, si trattava dell’Annunciazione napoletana di Tiziano: un capolavoro poco noto, ma assai speciale.
Il pomeriggio freddo e preannunciante una nevicata era ottimo per creare l’atmosfera. Corso di Porta Ticinese era poco affollato (strano, ma vero), forse a causa del ponte di Sant’Ambrogio, che gli sciatori avevano deciso di passare in montagna. I Chiostri di Sant’Eustorgio, però, con il loro bel museo, erano aperti, in attesa di qualche visitatore alla ricerca del dipinto di Tiziano.
Uno di questi visitatori era la Risolartista, con tanto di mantellina variopinta e sciarpone ben pesante per affrontare l’aria di neve. Il freddo non la spaventava: c’era un’opera d’arte che la stava aspettando a ormai pochi passi…
In breve fu dentro al Museo Diocesano, e cominciò ad arrampicarsi su per la scalinata che conduceva al suo obiettivo artistico. L’orario serale era propizio; le ultime chioccianti vecchine stavano abbandonando le sale, pensando già a cosa cucinare ai mariti per cena. Un paio di gradini ancora, e l’artista fu accolta da alcune curiose parole stampate sulle pareti.
“Qui fumate lente bruciano d’incensi per tutta la scena, e la velano e la svelano.”
Era una frase pronunciata anni indietro nel tempo, dal celeberrimo critico d’arte Roberto Longhi. Lei, il signor Longhi, lo conosceva bene (non di persona!): ne aveva letto libri su libri, e ammirava moltissimo il suo modo speciale di descrivere le opere. Il signor Longhi era un vero poeta, capace di rendere speciali e cariche di significati le pennellate dei pittori. Anche quando qualche dettaglio era facile che sfuggisse all’attenzione del pubblico comune, l’occhio del critico lo catturava, e lo esprimeva in modo unico. Letti da lui, i quadri assumevano tutto un altro valore e un’altra immagine. Letti da lui, i quadri diventavano vivi, e si mettevano a raccontare storie a coloro che li stavano osservando.
Non si sa se, quella volta, furono proprio le parole del Longhi impresse sul muro a fare la magia. Tant’è, che in un attimo la sua voce dolce risuonò nella stanza vuota, cominciando a descrivere l’opera, e un profumo di incenso si iniziò a percepire nell’aria.
Dapprima, la Risolartista pensava di star sognando, immaginandosi lo storico d’arte che pronunciava quel suo commento all’Annunciazione. Tuttavia, le parole non si fermavano, ma continuavano, quasi invitandola a rispondere. E, poi, c’era quell’odorino buonissimo di incenso, che proveniva chissà da dove. La frase iniziale vista sulla parete lo citava, eppure non se ne capiva il senso…
Il senso del vocabolo si chiarì davanti all’opera del Tiziano. Eccolo lì, l’incenso. O, come stava dicendo in quel momento il Longhi:
“Allora la colonna erodiana erosa nei ricami marmorei si perde come colonna d’incenso negli spazi colorati.”
… Si trattava di una colonna che sembrava liberare fumi d’incenso dalla cima. Che presenza strana, per essere un dipinto sull’Annunciazione! Presenza stranissima: c’era l’Arcangelo Gabriele che giungeva con il giglio in mano; c’era la Vergine che accoglieva quieta l’evento; e c’era quella colonna imponente accanto a lei. Una colonna impreziosita da bassorilievi, che saliva verso l’alto, per poi confondersi in volute di nubi.
… Nubi, o, come aveva osservato il Longhi, “incenso”. Più le si guardavano, e più sembrava di sentire il profumo di quella pregiata sostanza che stuzzicava il naso.
La Risolartista era estasiata: non aveva mai sentito parlare di quell’opera prima di allora, eppure, aveva qualcosa di unico. Tiziano le era sempre stato noto per i suoi lavori più giovanili, come la Venere di Urbino, oppure per tutti i “ritratti di stato” che era tanto bravo a fare per i regnanti. Tuttavia, il pittore veneto non era soltanto quello. C’era anche una sua produzione “matura”, spesso tralasciata, che rappresentava, però, il culmine della sua ricerca pittorica. Era in dipinti come l’Annunciazione, che si vedeva il suo essere riuscito a rendere il colore e la luce estremamente espressivi e drammatici. In quelle macchie non perfettamente definite, si percepiva l’interiorità e la sacralità della scena che era immortalata. In quegli effetti luministici impetuosi, era concentrato molto del Mistero. Affasciante davvero. Ancor più, visto quel profumo di incenso che accompagnava la visione, con quei fumi che avevano preso vita, e avvolgevano i puttini volanti in cima alla tela.
La ragazzina sarebbe rimasta lì immobile per ore, se non fosse accaduto qualcosa. E qualcosa accadde. Improvvisamente, la voce del Longhi si interruppe, e l’incenso scomparve.
La colonna era “spenta”. Non fumava più. Dopo cinquecento anni, a quanto pareva, le riserve di incenso che il Tiziano doveva aver nascosto nel quadro erano finite. Che disdetta! Senza materia da bruciare, l’Annunciazione avrebbe perso tutto il suo carattere speciale…
Occorreva fare qualcosa, e in fretta, prima che qualche altro visitatore giungesse e rimanesse deluso, davanti all’opera incompleta.
Trovare del nuovo incenso non era un’impresa semplice: dove si poteva andare a comprare? Certo, non al supermercato. Tanto più, il giorno di Sant’Ambrogio, in cui tutti i negozi erano chiusi!
Mentre la Risolartista pensava a una soluzione, le giunse all’orecchio un canto di preghiera: doveva essere l’ora della celebrazione quotidiana.
Immediata fu la sua reazione, e le sue gambette balzarono giù dalla scalinata, in direzione della sagrestia.
Per chi non fosse pratico del Museo Diocesano, vi dico che questo si trova accanto alla Basilica di Sant’Eustorgio. Ebbene, avere una chiesa come vicina di casa, in caso di bisogno di incenso, è proprio una fortuna…
Come aveva sperato, bastò chiedere al sagrestano se avevano un po’ di incenso, e questo fu ben lieto di aiutarla, dandole tutto quello che le serviva. L’unica cosa che le chiese, fu il motivo di una simile impellente necessità: non capitava tutti i giorni che qualcuno venisse a “elemosinare” incenso in chiesa! La Risolartista gli rispose invitandolo a seguirla fino al museo: avrebbe visto la ragione con i suoi occhi.
I due corsero nella Sala dell’Annunciazione, che, così come l’aveva lasciata, era ancora completamente priva di fumo. L’ometto capì l’importanza dell’incenso: senza quello, l’opera perdeva tutta la sua unicità.
Dunque, procedettero subito a bruciare la sostanza profumata, diffondendo la sua nebbiolina bianca tutt’attorno al quadro, come per benedirlo. Pochi movimenti dell’incensiere bastarono, e la colonna prese di nuovo a liberare le sue volute bianche, che tornarono ad avvolgere la parte alta della tela. Il quadro di Tiziano era salvo, e il profumo di incenso pervadeva ogni angolo della sala.
Poco dopo, arrivò una coppia di visitatori, che reagì subito estasiata, riconoscendo il profumo che sembrava liberarsi davvero dal dipinto. In effetti, dopo l’operazione della Risolartista, in quel momento l’incenso bruciava davvero, e tutti potevano sentirlo.
L’idea di arricchire con “effetti speciali” profumati la mostra piacque moltissimo ai curatori del museo; a tal punto, che decisero di far bruciare l’incensiere per tutta la durata dell’apertura. Così facendo, non solo gli artisti “speciali” avrebbero potuto annusarlo, ma chiunque avesse deciso di giungere ad ammirare il capolavoro tizianesco.
Quel pomeriggio, la Risolartista aveva voglia di fare un po’ di pratica di “ritrattistica”. Quale posto migliore per avere la giusta ispirazione della Pinacoteca di Brera?! Quadernetto degli schizzi sotto il braccio, matite e carboncini nello zainetto: in un attimo fu tra le sale braidensi. …
Domenica pomeriggio, tiepido sole novembrino a indorare le vie milanesi, profumo di caldarroste sotto il naso. Un tempo ideale in cui andare a spasso, alla ricerca di colori autunnali. Fu un certo sentore di sottobosco (insolito nel panorama metropolitano di Milano) ad attirare lo spiritello …
Una delle prime cose a cui pensò la Risolartista, appena tornata in terra milanese dalle vacanze, fu il suo campo di lavanda.
Che cosa doveva aspettarsi? Che cosa poteva essergli successo durante tutta quella estate in cui era stata lontana? Prima di partire, l’aveva affidato alle cure amorevoli della “fantesca” del condominio, la Signora Maria, raccomandandole di trattarlo bene. Chissà se si era almeno ricordata di annaffiarlo di tanto in tanto…
Il suddetto campo di lavanda si merita una degna presentazione. Altrimenti, potrebbe essere difficile immaginarselo nel modo corretto.
Il campo di lavanda della Risolartista risaliva a quella primavera, quando lei e la sua vicina di casa appassionata di piante, la Signora Giovanna, avevano deciso di crearlo.
Non pensate a un appezzamento di chissà quanti ettari di superficie; si trattava, sì e no, di mezzo metro quadrato di terra. E, per di più, di terra che riempiva una vasca decisamente circoscritta. Insomma, chi non ha fantasia, potrebbe quasi dire che quel campo di lavanda fosse in realtà una coppia di piantine di lavanda trapiantate alla buona in una vasca del giardino condominiale. Nondimeno, l’artista e la sua amica Giovanna (per fortuna) non mancavano di creatività…
Dunque, da semplici piantine di “Lavanda Officinalis”, si erano trasformate in un campo da fare invidia alle colline provenzali. E, se questa all’inizio era solo una convinzione astratta, con i mesi, il sole, e l’acqua che la Signora Maria si era ricordata di dare, era diventata piuttosto concreta.
Certo, rimaneva un campo di mezzo metro quadrato, ma vantava due cespugli rigogliosi e di notevoli dimensioni. Si poteva dire che l’altezza media di una pianta di lavanda che si rispetti (quasi un metro di lunghezza degli steli) fosse stata più che raggiunta!
Da quest’ultima affermazione, si intuisce come, appena tornata dalle vacanze, la Risolartista avesse trovato una piacevole sorpresa in giardino. Il suo campo di lavanda non era solo vivo e vegeto, ma anche meravigliosamente fiorito e cresciuto. Le gracili piantine che avevano piantato in origine non erano più riconoscibili. Al loro posto, la vasca traboccava di foglioline sottili e vellutate, alternate a lunghissimi gambi argentei. E, poi, al limitare di ognuno di questi, innumerevoli fiorellini violetti facevano da cappelli in forma di spiga, sprigionando il loro caratteristico profumo.
L’invito ad avvicinarsi e gustare quell’aroma era chiaro…
Peccato, che il campo di lavanda fosse al momento occupato! Occupato, e pieno di attività in fermento. Cogliere un fiore era impensabile; al massimo, si poteva tentare di accostare il naso a qualche spiga violetta…
Sempre che non si avesse paura delle api.
Proprio così: il campo di lavanda era diventato luogo abituale di frequentazione delle api del vicinato. Se ancora nessuna aveva deciso di appenderci il suo alveare, era un caso fortunato. Bastava guardare come ronzavano allegre e soddisfatte tra i fiori, per capire quanto si trovassero bene.
Durante l’estate, senza nessun condomino in giro, dato che tutti erano al mare, il campo di lavanda era rimasto molto tranquillo. La Signora Maria (che ricordo essere la fantesca della casa), infatti, era così pittoresca da essere considerata uno spirito campestre quanto le api. Evidentemente, trovarla di tanto in tanto ad annaffiare la vasca non era per loro un problema.
Con tutta quella calma agostana, le signore api avevano potuto colonizzare indisturbate i cespugli di lavanda, rendendolo il loro nuovo posto preferito del giardino.
Si sa che, tra i fiori prediletti da questi insetti a strisce, la lavanda primeggia come pochi. Di conseguenza, avendo a disposizione un campo tranquillo e rigoglioso, è facile capire come non avessero esitato ad appropriarsene.
Viene ora spontanea la domanda riguardo “come” se ne fossero appropriati. Se vi foste trovati nei panni della Risolartista in quel momento, mentre osservava incuriosita il campo per lei inaccessibile, avreste avuto subito la risposta.
La prima cosa che si notava, appena giunti nei pressi dei cespugli, erano delle macchie variopinte che comparivano qua e là tra gli steli. Avvicinandosi, tali macchie si delineavano meglio, rivelandosi essere vestiti e biancheria per api.
Era chiaro che le signore api del vicinato avevano pensato bene di sfruttare il campo di lavanda per stendere il loro bucato!
C’erano magliette, gonnelline, fazzoletti e calzini; poi ancora mutande, pantaloni e camicette. Tutti colorati, tutti a misura di ape, tutti che si rincorrevano sui fili tirati tra i gambi. Ripercorrendo tali fili, si arrivava alle estremità, che erano saldamente affrancate (con tanto di molletta) alla base delle spighe di fiori. In quel modo, i vestiti potevano asciugare al sole, immersi nell’aroma della lavanda. Chissà come dovevano essere profumati alla fine…
Mentre le signore api “casalinghe” si dedicavano al bucato, la squadra delle operaie gironzolava intorno alle estremità delle spighe, facendo incetta di nettare. La loro organizzazione avrebbe fatto invidia a qualsiasi “fabbrichetta” dei dintorni milanesi.
Ognuna era incaricata di raccogliere il polline in una determinata area dei cespugli. Ognuna aveva il suo bel cestino in cui mettere quello che non riusciva a trattenere dopo averlo succhiato. In questo modo, non doveva ritornare chissà quante volte sullo stesso fiore, ma poteva fare un solo viaggio e risparmiare tempo e fatica.
Finito il turno di lavoro, un pulmino “aziendale” (… dell’azienda in cui erano impiegate le suddette operaie) le caricava tutte insieme, con i loro cestini appresso, per portarle all’alveare. Lì, avrebbero cominciato la fase della trasformazione del polline in miele.
Ammirando tutta quell’operosità, la Risolartista non poteva che sperare di avere l’occasione di assaggiare quel capolavoro zuccherino in forma di miele di lavanda che sarebbe venuto fuori.
Una cosa assai curiosa della scenetta, era il fatto che, malgrado la presenza dell’umana a pochi passi, nessun’ape sembrava essersi accorta di lei. In realtà, tutte l’avevano vista, e anche per benino; tuttavia, non avevano ritenuto che fosse necessaria alcun’azione difensiva.
La Risolartista era amica delle api, e da amica veniva da loro trattata. Probabilmente non ci aveva mai fatto troppo caso, ma non era la prima volta che si ritrovava a passare vicino a quella colonia di api. Anzi, seppur inconsapevolmente, le aveva già aiutate molte volte.
Le aveva aiutate nel piantare rosmarino, salvia e lavanda sul suo terrazzino al sesto piano. Le aveva aiutate convincendo il condominio ad accettare la creazione di quel campo di lavanda in giardino, che era stato messo accanto a un ulteriore cespuglio di rosmarino. Tutte queste piantine, infatti, erano tra le varietà predilette dalle care api, e regalavano loro squisiti spuntini quotidiani. Avere qualche fiore in più con cui banchettare era gran cosa, vista la scarsità di verde di loro gradimento nei dintorni metropolitani…
Dunque, per gli insettini a strisce in questione, avere la Risolartista tra loro nel campo di lavanda era solo un piacere! Era merito suo, in fondo, se avevano trovato quel posticino tanto gradevole in cui stare.
Dopo un po’, vedendo che la ragazzina non se ne andava, ma continuava a osservarle curiosa, un’ape si fece coraggio e si rivolse a lei. Le sembrava brutto non dire nulla, e fingere di non notarla neppure; soprattutto visto che ognuna di loro si sentiva implicitamente in debito con quell’artista benefattrice.
Così, la salutò, e la invitò ad avvicinarsi ancora di più, per sentire meglio il profumo della lavanda. La Risolartista rispose allegra, solo minimamente stupita che un’ape si fosse messa a parlare con lei. Da personaggio pittoresco quale era, aveva ormai fatto l’abitudine ad avere a che fare con simili situazioni curiose…
Accogliendo l’invito, infilò il nasino nel cespuglio, respirando a pieni polmoni quell’aroma che le ricordava infinitamente la Provenza. Le ricordava quei campi violetti sterminati, quelle colline ordinate, nell’entroterra della Costa Azzurra, a due passi dal mare. Le ricordava le essenze alla lavanda in boccetta, e quei sacchettini ricamati a mano, ripieni di fiorellini, che le signore del posto vendevano ai turisti.
Fu in quel momento che al suo spirito d’artista venne un’idea.
Voleva fare anche lei, come quelle artigiane provenzali, che riempivano i sacchettini di lavanda, per poi profumarci le stanze di casa e la biancheria. Voleva creare anche lei tanti deliziosi piccoli scrigni di tessuto, per contenere quei chicchi di aroma concentrato dalle tinte violette. Sarebbe stato il modo perfetto per conservare il ricordo del suo campo di lavanda cittadino anche durante l’inverno. Di più: se lo sarebbe ritrovato addosso a ogni cambio di maglietta, presa pulita dall’armadio.
Per poter realizzare tutto ciò, però, aveva bisogno dei fiori. Qualcuna di quelle spighe profumate era essenziale.
Confidando nella benevolenza delle api, che sembravano decisamente in debito con lei per il campo di lavanda, chiese loro di poter raccogliere qualche ciuffo. Queste, sentita l’interessante motivazione artistica della domanda, non seppero dire di no. Anzi, chiesero anche di poter avere uno di quei sacchettini per loro, da mettere nel loro alveare come profumatore per ambienti!
L’unico problemino era che, prima di poter raccogliere la lavanda, era necessario ritirare il bucato. E il bucato, appena steso, non era certo asciutto. Di conseguenza, la raccolta fu rimandata al giorno successivo, permettendo alle api di godersi quel campo di lavanda così rigoglioso ancora per un po’…
Dopo un mese di sole pressoché ininterrotto, finalmente giunse la pioggia. E non furono le solite “due gocce” d’acqua… Tuttavia, prima che le secchiate di pioggia ricoprissero i colli lacustri, il pomeriggio sembrava presagire soltanto una lieve acquerugiola, più rinfrescante che altro. Confidando nella suddetta …
Mentre la Risolartista era nel bel mezzo delle sue compere quotidiane, il suo occhio attento cadde su una dicitura curiosa di una certa etichetta. “Prodotto lavorato a zampette con amore” Da questa curiosa dicitura, risalì, poi, alle zampette citate, che la condussero fino alle radici …
San Feliciano è quel piccolo angolo di Trasimeno noto per essere borgo di pescatori e di gatti. Senza dimenticare i tramonti: dicono siano tra i più belli del mondo intero…
Finché lo si visita da turisti, però, se ne perdono molte cose. Il San Feliciano degli stranieri è fatto di cenette di pesce con il rosso della sera sullo sfondo, di gite all’Isola Polvese, e biciclettate attorno alle rive. I più interessati al panorama enogastronomico, poi, potrebbero andare alla ricerca del pregiato olio d’oliva prodotto qui attorno, o del pesce di lago cucinato come vuole la tradizione.
Tuttavia, San Feliciano, per lo spirito pittoresco di un’artista, è molto di più. E il suo valore si accresce ulteriormente, nel momento in cui quest’artista è legata indissolubilmente ai suoi viottoli, a motivo di antiche discendenze di famiglia.
San Feliciano, per la Risolartista, era ed è la sua seconda casa. Una casa di vacanza, estiva, ma non solo. Una casa in cui abbandonare la frenesia cittadina, per rigenerare il suo animo pittoresco immergendolo nella natura selvaggia dei colli, e nella vita quotidiana che si sussegue tra i viottoli. Una casa da cui partire per avventure a metà tra realtà e incanto, tra contemporaneità e fiaba.
Tutti motivi che rendono questo paesino di pescatori (e di gatti) lo sfondo perfetto per racconti squisitamente pittoreschi.
Perché si possano apprezzare di più certe sue macchie di colori (e di vita) impresse sulla carta dall’artista, è bene conoscerne meglio qualche dettaglio.
Cominciamo da un punto di vista “esterno”. Cominciamo dall’ammirare San Feliciano a distanza, dall’alto, fermando i passi in cima al colle da cui parte la salita per Montalcino.
Visto da lì, il borghetto di pescatori assume i connotati perfetti per diventare un “paesaggio da cartolina”. Da lontano, le casette si confondono l’un l’altra, formando un grumolo di tetti e pareti dai colori pastello, tra cui spicca alto il campanile della chiesa. Il tutto è incorniciato da rami di ulivo carichi di frutti e di foglie, che, con le loro tinte argentee, contornano a meraviglia quel grazioso paesino.
Poi, ovviamente, c’è il lago. Il Lago Trasimeno, con la sua Isola Polvese che fa da macchia scura al centro, proprio di fronte alla riva sanfelicianese. Il Lago Trasimeno dalle tinte cangianti a seconda dell’estro del pittore che si è messo a dipingerlo. Il Lago Trasimeno, il cui profilo è rimarcato dalla lontana sponda opposta, su cui sorge il ben noto Castiglione. Nei giorni di aria pura, completa il tutto il Monte Subasio, che sorveglia gli abitanti lacustri dalla sua vetta brunita…
Manca solo il cielo. Difficile descriverlo con esattezza, in quanto le parole di oggi non andrebbero già più bene domani. E neppure tra un’ora, a dir la verità. Al mattino è azzurro, al pomeriggio guizza verso il latte se arriva qualche nube, e alla sera esplode come un fuoco d’artificio. Ecco il suo splendido tramonto…
Qualche volta è giallo, qualche volta arancione, molte volte rosso e rosato. Anche il verde, a dir la verità, non è estraneo alla sua tavolozza. Insomma, per potersi immaginare un tramonto sul Trasimeno a dovere, è necessario vederlo con i propri occhi.
Dopo aver colto il paese nel suo insieme, ci si può inoltrare più a fondo nei viottoli, cogliendo colori, suoni e profumi curiosi.
I colori variano dal rosa pesca, all’azzurro turchino, passando per le screziature naturali della pietra arenaria, che ancora spicca sulle pareti più antiche. Queste sono le tinte delle case e casette di cui San Feliciano si compone; tinte dolci, tranquille, qua e là accese da vasi da fiori appesi alle finestre.
I suoni sono quelli di tutti i giorni, con il valore aggiunto delle paroline scambiate in dialetto perugino. Il profumo inconfondibile, invece, è uno solo: quello della “cannuccia” lacustre che brucia allegra in chissà quale focolare…
Parlando di edifici nello specifico, non dovete aspettarvi grandi cose. Non è uno di quei borghetti fatti apposta per attrarre turisti con ristoranti e negozi a profusione.
Tutt’altro. A San Feliciano, la gente del luogo è semplice, e sembra spesso rimasta ferma a più di un secolo fa. Andando al di là delle apparenze (poche, ma necessarie per soddisfare minimamente gli stranieri), ci si può immergere in un’atmosfera antica. Atmosfera pittoresca, come quella delle campagne di un tempo, in cui si imparava a cavarsela da sé, e a fare quasi tutto in casa. La modernità, a San Feliciano, si è fermata alle soglie della maggior parte delle case: l’aura verace e quasi “fiabesca” di certi loro abitanti le ha impedito di entrare.
Il supermercato c’è, ma è pittoresco quanto i suoi clienti. Ed è trattato in modo altrettanto pittoresco, con un disinteresse verso certi comuni comfort cittadini che stupirebbe qualsiasi “metropolitano”.
A proposito del supermercato, vale la pena di partire da lui, per delineare la (brevissima) serie di negozi paesani.
Si tratta di un supermercatino di un pugno di metri quadrati, che ha nome Bussolini (dalla storica famiglia che lo fondò). Dire che è pieno di contraddizioni tra passato e presente è riduttivo. Se analizzaste ogni suo scaffale, trovereste materiale con cui divertirvi all’infinito. Vi basti sapere che ci sono prodotti tradizionali umbri che fanno la guerra con il mondo industriale. Trovate pecorini, ricotte di pecora e legumi tipici, accanto alle confezioni così sfacciatamente “da supermercato”, che non si vedono più neanche nei supermercati cittadini. Gli anni del boom economico e delle grandi marche oltremodo diffuse sono penetrati tra gli scaffali di Bussolini, senza abbandonarli mai. Il biologico, e tutte le mode contemporanee, non hanno spazio nelle borse della spesa delle signore sanfelicianesi. Al loro posto, compaiono i prodotti tipici e quelli anche troppo “da supermercato”, accompagnati da certi prodotti di “industria locale”, con nomi di marche che potete trovare solo qui. Dalla pasta Fabianelli, al latte Grifo. Dai biscotti Lago, all’Ovo Fresco San Martino che riempie un intero reparto con uova di ogni tipo e dimensione. E si potrebbe andare avanti a citare nomi più che curiosi all’infinito…
Va da sé, che tutte le “matrone” (così mi piace chiamare le signore attempate) del paese di una certa età vadano da Bussolini tutti giorni. Ci vanno a fare la spesa, ma soprattutto a fare quattro chiacchiere allegre con le proprie vicine di casa. Per non parlare, poi, delle battutine in dialetto che si scambiano con le commesse del negozio!
Passando agli altri negozi, non c’è molto da dire. Una panetteria non c’è più, sostituita dal caro Bussolini, che si fa consegnare tutte le mattine il pane fresco da due fornai del paese di Magione.
È rimasto invece il macellaio, il Signor Scarchini. Da storico protagonista dello shopping delle matrone in materia di carne, continua tutt’oggi a offrire i suoi ottimi servigi. Una colonna di San Feliciano, ma mai quanto il supermercato.
Poi, c’è l’Altra Edicola. Un’edicola che vende roba da edicola… e altro. Molto altro: dai cosmetici, ai tè, ai barattoli di miele e alle bottiglie di olio d’oliva. A pensarci bene, non si allontana poi tanto dal concetto di “drogheria” tanto caro ai nostri nonni; l’unica differenza è che ci si possono comprare prevalentemente giornali e quotidiani.
Completa la serie di negozi affacciati sulla piazza principale la farmacia. Fine della (brevissima) lista!
Come ultimo luogo di shopping si può ancora citare quel buchetto molto grazioso (ma pur sempre un “buchetto”), costituito dal punto vendita della Cooperativa dei Pescatori del Trasimeno. Da buon borgo di pescatori, non potrebbe mancare un posto in cui comprare il pesce di lago appena pescato.
Se volete, aggiungo anche il mercato che si tiene sulla piazza ogni venerdì. Non immaginatevi file e file di bancarelle affollate… non è uno spettacolo a cui i Sanfelicianesi siano abituati. Il mercato del venerdì non raggiunge neppure la doppia cifra per numero di banchetti; nondimeno, si tratta di banchetti a cui vale la pena fermarsi. Se le matrone paesane hanno bisogno di rinnovare le loro livree da lavoro (ossia i grembiuli) troveranno sempre un’ampia offerta. Come non rimarranno a bocca asciutta neppure in materia di calze, biancheria e pigiamini.
Gli uomini di casa, invece, è probabile preferiscano avvicinarsi al furgoncino della porchetta, che vende anche salumi e formaggi locali, oppure andare dal fiorista. Fiorista, che tanto fiorista poi non è. Di fiori quasi non se ne vedono; piuttosto ha un’incredibile varietà di ortaggi e piantine da seminare nell’orto. È questo che vuole la sua clientela.
Le suddette erano le bancarelle fisse. Poi, a seconda dell’estro della settimana, compaiono curiosi e pittoreschi venditori. Talvolta potreste trovare olio d’oliva purissimo del Trasimeno, oppure miele delle più strane varietà. O, ancora, montagne su montagne di mele, prodotte da un’azienda a due passi dal lago.
Con cosa si tornerà a casa il prossimo venerdì? Solo lo spirito del mercato sanfelicianese lo sa…
A questo punto, è probabile che vi siano sorte due domande riguardo le abitudini dei Sanfelicianesi.
La prima, è dove prendano la frutta e la verdura. Un ortolano vero e proprio non c’è… tuttavia, c’è il Signor Sergio, ortolano ambulante, che tre volte la settimana mette giù il suo camioncino in piazza.
E, poi, ci sono gli orti del Trasimeno. Basta abbandonare il caseggiato, per rendersi conto di come le colline circostanti siano tutte macchiate di fazzoletti di orto pieni di ortaggi di ogni tipo. Se chiedete a qualche abitante, vi dirà sicuramente dove ha il suo bell’orticello di famiglia. Chissà che non ve lo faccia persino visitare…
La seconda questione, invece, riguarda quella parte di abitanti “normali”, estranei a questa vita rimasta intrappolata a un bel po’ di tempo fa. Che vita faranno mai i “giovani”, e tutti i paesani “cittadini” (che passano più tempo in città che sul lago)? … Fanno la vita che probabilmente fate anche voi. Fanno acquisti in città, hanno amici in città, e lavorano in città. Solamente, ci mettono una mezz’ora di macchina in più anche solo per andare a fare la spesa. Per il resto, sono gente contemporanea come chiunque altro, troppo impegnata per entrare in profondità in queste dinamiche pittoresche di paese.
Il lato speciale e fiabesco di San Feliciano, infatti, richiede una certa sensibilità e attenzione per essere colto. Motivo per cui i soggetti di cui sentirete parlare non sono i canonici pendolari…
Eccoci, dunque. Eccoci a dire qualcosa di questi pittoreschi abitanti di San Feliciano.
Per conoscerli davvero, dovreste parlarci. Anche parlandoci, però, non capireste tanto (vi avviso). Non capireste i “non detti” che si riferiscono a chissà quale storia locale, non capireste neppure le parole in dialetto, che si divertono a cancellare da ogni frase il numero più grande possibile di lettere. Se volessi mettere per iscritto un normale chiacchiericcio da bar in riva al lago, dovrei mettere più apostrofi che vocali…
Per avere un’idea di massima di chi affolla i viottoli sanfelicianesi, potete prendere spunto da questi pochi indizi.
Pensate a matrone che si affaccendano tutto il giorno in cucina, dopo aver passato buona parte della mattinata a chiacchierare tra bar e supermercato.
Pensate a uomini di un’altra epoca, che la sanno lunga sulla vita, e si sono ritirati a curare il loro orticello come fosse un secondo figlio.
Pensate ai pescatori di ieri, che pescano tutt’oggi, e sempre con le stesse reti riparate anno dopo anno.
Pensate a un miscuglio di abitanti più giovani, che fanno da ponte tra il paese più fiabesco, e la realtà contemporanea. Sono loro a passare allegramente i prodotti alla cassa, o a servirvi il caffè con un sorriso.
Questo vi basti, il resto sarà vostro piacere approfondirlo…
Concludiamo il tour di San Feliciano con qualche altro accenno di contesto.
Tutti i vicoletti si snocciolano dalla strada principale (l’unica con il semaforo!), in senso perpendicolare al lago. Se vogliamo identificare il “cuore” del paese, non può che essere la piazza dei negozi, su cui svetta la torretta dell’orologio. Orologio squisitamente in ritardo; e in ritardo variabile a seconda di chissà quale logica balzana.
Per quel che riguarda i ristoranti e i caffè, ce ne sono disseminati qua e là. Uno vale la pena di citarlo: lo storico “Ristorante da Settimio”, rinomato per la cucina di pesce di lago. In quanto borgo di pescatori, come c’è il negozio del pesce, ci deve pur essere anche una tavola calda in cui chi non ha voglia di cucinare lo possa comunque gustare!
Non che ci sia bisogno di dirlo, ma San Feliciano ha anche un bel porto. Anzi, due porti. Entrambi piene di barchette, motoscafi e vele, che nelle giornate di bel tempo punteggiano le acque con le loro presenze.
Ora il quadretto dovrebbe essere abbastanza chiaro. Volendo, si potrebbe continuare ad aggiungere sempre più pennellate di particolari alla tela, ma (perdonate la finezza della metafora) non sono una pittrice fiamminga. Troppi dettagli sono difficili da ricordare tutti… si rischierebbe di non apprezzare i pochi di valore.
Vi ho parlato della veduta di San Feliciano dai colli, e dei suoi scorci di piccola quotidianità che si avvicenda nei viottoli. Vi ho parlato dei negozi, dei ristoranti, e del porto.
Gli spiritelli umani che animano la vita qui, lo avrete intuito, sono impossibili da immortalare per intero. Basta sapere che ci sono, e che è grazie a loro che certe scenette pittoresche continuano a succedere.
Mancherebbero solo i gatti.
Mancherebbe solo la seconda anima di San Feliciano, senza la quale il paese non è completo. Tuttavia, una coda di testo non basta a descriverne nemmeno un baffo… meglio rimandare a un’altra pagina inchiostrata.
Concludo la descrizione con quella che è la quotidiana fine di ogni giornata sanfelicianese. Concludo ricordandovi che si tratta del paese dei tramonti. Dunque, concludo consigliandovi di dipingere nella vostra mente ogni tinta di cielo al tramonto che siete capaci di immaginare. Appena l’avrete fatto, ricordatevi di rievocare tali colori ogni volta che pensate alla sera che arriva sul Trasimeno. Solo così, potrete apprezzare a pieno le storie di cui questo magico lago si trova a essere testimone…
Ogni mattina, nel viottolo che conduceva dalla piazza al lungolago, avveniva un evento curioso. Ogni mattina, se vi fosse capitato di percorrere tale viottolo, vi sareste ritrovati spettatori di una storia d’amore felino. Il primo protagonista, o meglio “la protagonista”, era la Gatta Ittica. Tutti …