Mese: Maggio 2021

Il Gatto Cappelletto

Il Gatto Cappelletto

Ehi, dico a voi laggiù! … Non mi vedete? Sono qui, sopra il tetto. Proprio accanto all’antenna della televisione! Un momento solo, e scendo a presentarmi: devo finire il mio giro di ricognizione mattutino. Eccomi. Scusate il ritardo! Ora vi spiego cosa stavo facendo poco 

Miele da intenditori

Miele da intenditori

Vi sarà capitato, almeno una volta, di ritrovarvi alle prese con un barattolo di miele dal contenuto solido quanto un pezzo di sapone da bucato. Per il sapone, non ci sarebbero grandi problemi: un po’ d’acqua, e il tutto si ammorbidirebbe in un attimo. Trattandosi 

Acacia la Beccaccia

Acacia la Beccaccia

Salve a tutti! Mi chiamo Acacia, e sono una Beccaccia ghiotta di miele… d’acacia. Ci tengo subito a sottolinearlo (nel caso ne aveste un barattolino proprio lì, a portata di mano…!), così da aiutarvi anche a trovare la mia casetta. Indovinate un po’! Anche quella si trova proprio tra le fronde di un maestoso albero di acacia! Così non corro mai il rischio che le api si ritrovino senza i suoi fiorellini, e non possano produrre il mio adorato miele.

Vi dirò di più, mi occupo personalmente di tutto il lavoro che c’è dietro a ogni barattolo di nettare dorato. Se venite a farmi visita, un giorno o l’altro, potrete vedere con i vostri occhi il mio piccolo laboratorio. 

Per chi non l’avesse ancora capito, sono una Beccaccia apicoltrice. E di prim’ordine! Ho passato mesi a fare da apprendista presso gli esperti apicoltori di tutta l’Umbria. Da Corciano, a Panicale, fino a Montecorona, in direzione del confine toscano. Ogni zona ha il suo polline unico e prelibato: è il bello della varietà che ci regala la natura (che voi umani chiamate “biodiversità”, e che fareste proprio bene a proteggere…). Tra tutti quelli che ho assaggiato, però, il mio miele preferito rimane quello d’acacia. Cristallino, giallo pallido, e costantemente liquido. Perfetto su quelle briciole di pane che qualche saggio bambino lascia cadere sul sentiero, sperando di attirare un amico uccellino. Perfetto anche d’estate, per accompagnare una frittura di insetti di lago, oppure con un vermetto fresco di giornata. Ma la sua “morte” rimangono le uvette secche. Uvette dolci e zuccherine, rese ancora più gustose se intinte con la zampa nel barattolo di miele. Le mangerei a ogni ora: dalla colazione, alla cena! Parlando di varietà (prendete nota, così sapete già cosa mettermi sotto l’albero per Natale…), vanno bene l’uvetta sultanina, o quella bianca e gigante. La mia preferita, però, è l’uvetta di Corinto. Mica facile trovarla, qui, sul Trasimeno! Corinto (la cartina dice che si trova in Grecia) è a un bel po’ di chilometri da qui: troppo lontano per andarci in volo. E i mercati del posto, purtroppo, sembrano non aver ancora scoperto questa chicca in formato di chicco d’uva. Perciò, se mai vi capitasse di trovarla, ora sapete quanto mi farebbe piacere…

Torniamo alle api, e al mio lavoro di apicoltrice. Intanto, per trovare il mio laboratorio-casa, dovete inoltrarvi tra i sentieri del bosco che porta in direzione del Toppo. Ad un certo punto, dopo un breve tratto di radura, lasciate la via maestra, e salite sulla destra. Vedrete la mia meravigliosa acacia, sempre ben annaffiata e potata dalla sottoscritta. Non sia mai che faccia una fioritura di qualità scadente, che vada a rovinare il mio miele d’annata!

Proprio lassù, tra il fogliame fitto, ho costruito il mio pied-à-terre. Con tanto di stanzino laboratorio, che fa da vera fabbrica del miele. Attorno, infatti, potete ammirare le casette delle mie api operaie, in cui depositano continuamente il polline raccolto nei dintorni. Siamo una vera azienda apistica (come dite voi), con tanto di contratto a tempo indeterminato per le mie lavoratrici alate. Loro se ne vanno in giro alla ricerca del polline più gustoso, lo lavorano come sanno fare bene, e io mi occupo del resto. Periodicamente, prelevo il miele prodotto, lasciando intatta la parte che non mi spetta. Qui siamo animaletti onesti e solidali! In più, tengo pulite le loro case, e mi assicuro che abbiano abbastanza cibo durante l’inverno. Si può proprio dire che io e le api viviamo in “simbiosi” perfetta (che significa “aiuto reciproco”, per chi non l’avesse mai sentito dire…).

Il risultato? Un’ottima produzione di miele locale per tutto l’anno. Il migliore del posto, a detta degli abitanti del bosco. Potete acquistarlo anche voi, proprio nella mia casetta, che fa da laboratorio, quanto da negozio. Oppure, se non aveste tempo di venire a farmi visita di persona, potete sempre rivolgervi all’edicola del paese. Sembra un’edicola, e l’insegna lo conferma, ma non lo è completamente. O meglio, non lo è soltanto! Vende giornali e riviste, e, accanto, miele e infusi aromatici. E non un miele qualunque; il mio miele! Anche se non lo può dire in modo esplicito.  Altrimenti, i turisti stranieri non ci crederebbero mai, e prenderebbero poco sul serio tutto il lavoro fatto da una Beccaccia come me…

Volete sapere le varietà che produco? L’acacia credo di avervela già citata anche troppo; poi non mancano il girasole, il tarassaco e l’erba medica. Tutti i fiori che ricoprono i campi del luogo nelle diverse stagioni, insomma. Ah, certo, c’è anche il millefiori. Un classico che non è mai uguale a se stesso. Ogni annata è diversa e irripetibile; si può solo tirare a indovinare quale consistenza avrà questa volta.

Credo di aver parlato anche troppo di miele… sarete stanchi di sentirlo nominare. Spero, almeno, che siate anche desiderosi di assaggiarlo al più presto! Quando inizio a parlare (di miele, ma non solo), non la finisco più. Colpa del mio beccaccio troppo lungo, che non sa stare zitto facilmente. Se passate per i boschi, soprattutto in primavera, quando sono più sveglia e scattante, mi sentirete di sicuro. Di più, se aveste voglia, chiamatemi, e verrò a tenervi compagnia durante il tragitto. Si trova sempre un buon argomento di cui parlare. A cominciare dal miele. Non solo di quello, non vi preoccupate. Ad esempio, potremmo parlare di granelli di polline. Sono ottimi sciolti nello yogurt, o uniti a una macedonia di stagione…

Una torta di mele

Una torta di mele

Quattro passi in direzione della campagna, e le gocce di pioggia avevano subito cominciato a cadere. La Risolartista avrebbe tanto voluto prolungare il suo giretto pomeridiano, ma il tempo non voleva saperne di collaborare. In breve fu costretta a rinunciare, e rincasò zuppa dalla testa 

Toppolo il Leprotto del Toppo

Toppolo il Leprotto del Toppo

Piacere, mi chiamo Toppolo. Sono un Leprotto color caramello, dalle orecchie lunghe, e con un codino bianco bianco, come fosse un batuffolo di cotone. Abito su in alto, quasi in cima alla collina. Quale? … Quella del Toppo, che domande! Per chi non fosse del 

Un picnic al testo

Un picnic al testo

Una domenica di maggio scorre sotto ai rami quieti degli ulivi. Un praticello verde, qualche petalo giallo, e quel profumo di campagna primaverile, ricca di polline, quanto di braci ardenti che scoppiettano chissà dove. Così comincia il primo picnic di stagione, perso tra i colli del Trasimeno. 

Sulla coperta di lana c’è un cestino curioso. Pare che un po’ di quell’odorino di legna venga da lì. Il suo contenuto, dopo tutto, ha visto il testum fino a poco prima, e il testum, si sa, ha la passione per il fuoco. 

L’ora è giusta, i piattini per la “colazione da campo” sono in attesa di conquistarsi qualche briciola. Di cosa? Di torta. Non dolce, ma lievemente salata. Di torta al testo. 

Siamo in Umbria: in quella terra etrusca, in cui gli antichi Romani e i Bizantini hanno lasciato il loro aroma sulla tavola. Se si cerca il pane, qui, si chiede una fetta di torta. 

Qualsiasi vicoletto del borgo lacustre si scelga, il profumo di legna accompagna. Qualsiasi sia la stagione, la brace viene accesa, e l’impasto viene posto a macchiarsi di bruno sulla pietra. Pratica antichissima, ancestrale, che risale fin ai discorsi in latino. Dopo tutto, quel “testo”, altro non è che il testum di allora, adattato al presente. La tradizione lo pretenderebbe, ma la mamma, nel preparare il pranzo, si accontenta di una padella ben calda. Conta il risultato: ciò che si scorge nel cestino da picnic, da farcire come più piace. C’è chi vuole i rapi, chi gli asparagi di bosco. E chi aspetta solo che gli si passi in mano il vassoio del prosciutto. Attorno, la campagna osserva, quasi fosse desiderosa di assaggiarne un pezzetto. Non c’è pericolo che qualcosa non venga regalato al prato… anche la natura del luogo, probabile fonte delle braci che hanno cotto la torta, si merita la sua piccola parte.

L’antica torta al testum

Torta… al testo. Tanto ricorre questa parola nel chiacchiericcio perugino dell’ora di pranzo, che vale la pena di assaggiarne un boccone culturale più profondo. 

Per riscoprire l’origine del nome, dobbiamo risalire indietro con gli anni, ai tempi in cui l’Umbria era in stretto contatto con il popolo dell’Antica Roma. È proprio allora che comparve il testum: una pietra laterizia che veniva posta sulle braci ardenti, così da poterci cuocere sopra i primi esempi di torta al testo. 

La tradizione di questo pane, tipico della terra etrusca, è propria delle campagne romane, dove, nelle villae contadine, le donne di famiglia erano solite preparare delle sorte di gallette poco lievitate. Pochissimi erano gli ingredienti: farina (soprattutto di farro), acqua, forse un pizzico di sale. Spesso il lievito nemmeno c’era. Le pagnotte lievitate, infatti, arrivarono più tardi in città, sfornate dai forni del pistor (nome latino del fornaio). 

Le scarse risorse dei contadini non permettevano pasti di lusso; la torta al testo di allora rispondeva bene a queste esigenze. Semplici le materie prime, e semplice anche il metodo di cottura che, grazie al nostro testum, non richiedeva forni o attrezzature particolari. 

Dai latini, l’usanza di portare in tavola questo pane, che pane non è, si è protratta nei tempi, contaminandosi anche con un’altra tradizione. Quella bizantina.

Occorre adesso menzionare il fatto che l’Umbria si trovava, intorno al VI secolo, nel bel mezzo del cosiddetto “Corridoio Bizantino”: una striscia di terra strappata ai Longobardi, che connetteva Ravenna a Roma. Una via commerciale e strategica fondamentale per l’Impero bizantino, quanto per la diffusione della torta al testo in questione. Il Corridoio, infatti, toccava città umbre quali Perugia, Gubbio, Todi e Città di Castello: tutti luoghi che, guardate un po’, si ritrovano oggi a essere i maggiori borghi golosi di questa pietanza. Merito di quello che doveva essere, ai tempi, il gusto bizantino per simili pani poco lievitati, che erano frutto del testum romano, quanto dell’influenza della pita greca, e di altre specialità turche e orientali. 

La torta al testo di oggi, dunque, ha un animo a metà tra il latino e il mediorientale. E un cuore di farcitura che varia dai rapi (bietoline di campo locali), al culatello, e alle altre delizie prodotte nelle norcinerie. La farina è diventata perlopiù bianca, con l’aggiunta di un pochino di lievito, così da rendere l’impasto più fragrante. Si racconta, infatti, che i manufatti romani fossero piuttosto stopposi…

Far, testum e panis

Prima di assaggiare una fetta tagliata a metà, e riempita di ciò che più piace tra le tante fantasiose alternative, vale la pena di curiosare ancora attorno al testum antico. È curioso, ad esempio, che le prime gallette fossero fatte di farro… non vi pare?! A pochi perugini, oggi, verrebbe in mente di ricorrere proprio a questo cereale. Eppure, se ci si pensa bene, il farro ricorre ogni volta che si parla di FARina. Non a caso, il nome latino di questo chicco era far. Si trattava, per la precisione, di farro dicocco: uno tra i primi cereali a essere coltivati in Italia, assieme all’orzo. Si capisce bene come mai le antenate delle torte al testo fossero fatte con tale ingrediente. Il grano duro e il grano tenero arrivarono dopo, e, in quanto chicchi “nudi”, più facili da macinare, furono subito prediletti. Gli altri due, infatti, da chicchi “rivestiti”, avevano attorno una membrana dura, assai faticosa da decorticare.

Volendo approfondire le pratiche cerealicole romane, possiamo ricordare i Fornacalla: grandi feste di tostatura del grano, durante le quali i cereali venivano, appunto, tostati, così da prolungarne i tempi di conservazione.

Infine, un’occhiata al laboratorio del pistor, ossia quello che già abbiamo citato come il fornaio di allora. Il pestello e il mortaio di legno erano gli strumenti essenziali per ricavare la semola, da cui il romano comune traeva la sua puls (polentina) quotidiana. La mola, invece, con le sue due pietre, serviva a ottenere la farina: derivato dei cereali molto più utile al suddetto pistor. 

Per fare il pane, gli ingredienti erano (e sono) sempre gli stessi: farina, acqua, sale e lievito. Il panificatore cittadino, infatti, conosceva ormai il fermentum, che permetteva di ottenere pagnotte ben più morbide e gustose. Non pensate al lievito di birra (quello arriverà un po’ dopo…), quanto piuttosto a una mistura di farina di miglio e mosto d’uva, che veniva preparata una volta all’anno, durante la vendemmia. Alternativa valida parevano essere anche dei dolcetti di orzo fermentati… ma non c’è nessuno ancora vivo a confermarlo.

Le pagnotte, una volta lievitate, venivano cotte in veri forni a legna, oppure ricorrendo all’ormai ben noto testum (che rimaneva il più usato in campagna). Che cosa ci si poteva aspettare esposto nella vetrina del fornaio? Pane nero integrale, rustico e dalla nomea lassativa; panis secundarius (più raffinato); e, infine, il principe della tavola: il panis candidus bianco. Per noi perugini, però, al centro della tavola rimarrà sempre la torta al testo.

Iris

Iris

… Pioverà? Forse. Non si sa. Il grigolino delle nuvole è ancora quasi amichevole: fa venire voglia di prendere il sentiero dei colli. Passi incerti conducono lassù, verso una certa cappellina sempre adorna di un mazzo di fiori.  Oggi, però, c’è qualcosa di più. Macchie