Quante volte avete ordinato dal menù del ristorante quel celebre piatto di carne cruda chiamato “Carpaccio”? Quante volte ve lo siete ritrovato scritto sulla carta con l’iniziale minuscola, pensando si trattasse di una di quelle versioni dispregiative di un qualche termine dialettale? Ebbene, è il …
Fino all’invenzione della pittura a olio, avvenuta per mano dei Fiamminghi, nelle terre nordiche quattrocentesche, la tecnica più usata era la tempera. Tempera… all’uovo. Da secoli, le preparazioni oleose erano celebri per il loro essere tanto vantaggiose, quanto ben scomode da utilizzare. Pensate che, per far …
Se dovessimo descrivere la produzione matura del Caravaggio con una sola parola, faremmo molta fatica. Definirla Realismo sarebbe troppo poco. Il Realismo, per noi contemporanei che abbiamo vissuto le epoche artistiche successive, è riconducibile subito alla realtà contadina di Courbet. Un Realismo schietto, ma non crudo e impressionante come quello caravaggesco. Certo, il suddetto francese non è così lontano dal Caravaggio, poiché lo stesso Roberto Longhi lo riteneva uno dei suoi successori. Tuttavia, il Caravaggio era qualcosa in più.
Perciò, concedendoci l’uso di non uno, ma di due termini, determiniamo l’opera del periodo maturo del Merisi come un Realismo Cinematografico.
… Cinematografico?! Aggettivo strano, per non dire assurdo, trattandosi di un pittore cinquecentesco. Nel XVI secolo, il cinematografo non era ancora stato inventato… giusto?!
Corretto, ma solo in parte. Nel 1500, ancora non si andava al cinema a vedere i film (qui sono serviti i Fratelli Lumière per fare la magia!), ma un certo concetto di cinematografo esisteva già.
Per fare luce su questo curioso argomento, cominciamo a fare luce su un’opera del Caravaggio particolarmente cinematografica: L’Incredulità di San Tommaso.
Lo spunto viene da una delle sue due versioni, recentemente proiettata, o meglio, esposta (visto che non è un vero film) nel museo della Permanente di Milano. Si tratta di quella triestina, ritenuta autentica al pari della sorella conservata a Potsdam, in Germania.
Ciò che subito colpisce l’osservatore è anche ciò che permette di compiere la magia del cinema: la luce. Qui, la luce crea la scena, e non è più la scena a farsi illuminare. Se non ci fosse la luce, non ci sarebbe l’evento. Se non ci fosse la luce, il San Tommaso non potrebbe infilare il suo dito incredulo nella piaga del costato di Cristo. È grazie a quel raggio penetrante che fa capolino da sinistra, che le tenebre si schiudono, lasciando quel tanto di spazio che basta al dispiegarsi dell’azione. In un attimo, il brano evangelico si compie; in un istante, ogni macchia di colore si carica di luminosità, e compone i quattro personaggi che compaiono in quello spazio non-spazio.
… Dove si trovano? Basandosi solo sulla tela, nessuno lo potrebbe indovinare. Tuttavia, c’è qualcuno che può darci qualche indizio ulteriore, per aiutarci a chiarire il mistero…
Roberto Longhi. Il grande studioso è celebre soprattutto per i suoi studi sul Caravaggio. Dunque, se ci affidiamo alle sue parole, anche noi potremmo fare luce sulla luce che prorompe nella scena di cinematografico realismo del Caravaggio.
Per il nostro storico dell’arte, il Caravaggio, tra i suoi tanti meriti, fu l’inventore del cinematografo, da intendersi come utilizzo della camera oscura per creare i suoi framespittorici. Non che avesse messo a punto lui stesso la camera oscura in quanto tale, poiché questa era allora materia di studio di diversi interessati all’ottica. Tra di essi, il nome di Galileo vi suonerà familiare, come suonava familiare anche alle orecchie del Merisi, che lo aveva incontrato mentre soggiornava in casa del Cardinal Del Monte.
Introdotto che fu a quest’appassionante argomento di lenti e luce, il nostro pittore pensò di applicare tali strumenti alla sua arte. E neppure in questo caso fu esattamente il primo: già i vedutisti facevano uso di lenti per proiettare la scena che dovevano ritrarre sulla loro tela, così da rispettare con precisione ogni dettaglio e proporzione. Tuttavia, il Caravaggio ha il merito dell’aver messo insieme tutti questi contributi e sua pennellata di estremo realismo, producendo fotogrammi da film, quando ancora non c’era un cinematografo con cui proiettarli.
Dovete immaginare il suo atelier un po’ come una grande camera oscura, come fosse quella della macchina fotografica. Buio pesto, e un fascio di luce che proveniva dall’alto. Le prove di questo suo sistema sono tangibili: il Caravaggio lasciò il segno concreto del suo cinematografo domestico…
Prudenzia Bruni, la proprietaria dell’appartamento che egli aveva affittato a Roma, in quello che era il Vicolo di San Biagio, dopo averlo sfrattato si lamentò di aver trovato un buco. Un buco sul soffitto. Certo, non sapeva che, nella sua casetta condominiale, il suo inquilino aveva messo in piedi una vera camera oscura in cui mettersi a dipingere i suoi frammenti di luce…
E così, facendo ordine su tutto quanto detto e raccontato, torniamo al nostro San Tommaso, che, anche in mancanza di prove, ci piace credere realizzato in quell’appartamento. Immaginatevi i quattro soggetti messi in posa all’interno della stanza buia. Immaginatevi il fiotto di luce che proveniva dall’alto, mentre bucava le ombre e permetteva all’artista di vedere e immortalare la scena. Dal fondo nero della tela (il Caravaggio partiva sempre con una superficie scura), le figure emergono solo laddove sono toccate dal fascio luminoso. Non si vede nient’altro che ciò che la luce compose in quel momento. C’è il volto corrucciato del San Tommaso, c’è il suo dito che si perde nella piaga, e c’è il corpo di Cristo tornato in vita. I quattro volti formano una croce, e ci consegnano un misto di emozione e incredulità che rimane in parte celata in ciò che mai sapremo. Il buio che buio rimase è buio anche per noi. Esattamente come avviene nel cinema. Anche lì, se il regista decide di lasciare in ombra una parte della scena (per non dire un intero periodo), noi non potremmo mai tornare là per scoprire quanto non ci è stato mostrato.
Luce… tutto si compie grazie alla luce. Il cinematografo proietta luce sullo schermo, e il Caravaggio allo stesso modo sulla tela. È in opere come questa che si apprezza il suo Realismo cinematografico. È in quel volto rivelato di Tommaso, e in quello celato di Cristo, che capiamo davvero cosa si intenda per quei fotogrammi di luce caravaggesca.
Le quattro tele lombarde dei precaravaggeschi, in mostra a Palazzo Marino, sono un ottimo spunto per parlare di due curiose protagoniste dell’arte sacra. Si tratta di Santa Caterina d’Alessandria e della levatrice di Gesù, Salomè. Quando pensiamo alle donne nei testi biblici e nell’iconografia religiosa, …
L’ARTISTA Facciamo conoscenza con un pittore milanese di fine Quattrocento, che vanta l’appellativo di miglior allievo diretto di Leonardo. Se è lunga la lista di coloro che si sono ispirati al maestro fiorentino, questo qui è senza dubbio tra i suoi più fedeli imitatori. Bravo a …
Quel giorno, poco prima di varcare la soglia della “Galleria degli Affreschi”, la Risolartista fece (quasi) uno scontro curioso. Si ritrovò sulla traiettoria di un personaggio piuttosto ingombrante, quanto molto insolito da trovare in un museo. Era un giardiniere.
Era un giardiniere vero, anche se dall’aspetto pittoresco, con tanto di cesoie che sporgevano dalla tasca, e mani annerite dalla terra. Certo, non dava l’impressione di essere uno dei soliti giardinieri che si vedono ad affannarsi nei vani tentativi di potare le piante delle vie cittadine. Quelli sono giardinieri comuni, che sanno di botanica tanto quanto potrebbe saperne un scolaro mediamente studioso in età liceale. L’ometto in questione, invece, pareva proprio un esperto. Un esperto un po’ nel suo mondo, popolato sicuramente dalle creature vegetali più rare e affascinanti. Per farvela breve, poteva benissimo essere uscito da uno di quei libri di avventura alla Jules Verne, solo in ambito strettamente botanico.
Tutto questo per introdurvi alla scena ancor più curiosa a cui l’artista ebbe modo di assistere poco dopo. Il luogo in cui avvenne (ve lo preciso, così potete immedesimarvi meglio) era esattamente l’angolo destro della “Galleria degli Affreschi”, proprio dove è appesa, ancora oggi, la “Madonna del Roseto” di Bernardino Luini.
Vi ho parlato del giardiniere, ma mi sono dimenticata di sottolinearvi come mai fosse così “ingombrante”. Non era particolarmente grasso (anzi, era un fuscellino!), ma era carico di rami secchi, fogliame e fiori appassiti che doveva aver trovato chissà dove. In effetti, se ci pensate bene, all’interno di un museo i fiori veri non crescono né sugli alberi, né sulle aiuole. Nessuno ha mai visto delle piante in “linfa e ossa” che spuntano agli angoli delle sale…
Tuttavia, la magia di Brera sa rendere veritiero ogni sogno più pittoresco e inverosimile. Ormai dovreste averlo capito. Anche la Risolartista, però (lo dobbiamo ammettere), quella volta rimase davvero stupita davanti a quanto stava accadendo attorno alla “Madonna del Roseto” del Luini.
Perché possiate immaginarvi meglio la scena, è bene ricordare qualche dettaglio del dipinto in questione: chi non ha idea di cosa sia è difficile che si goda la storia.
La Madonna del Roseto è un capolavoro di naturalismo della pittura lombarda di inizio ‘500 realizzata dal signor Bernardino Luini. Da fedele seguace di Leonardo, egli era bravissimo nel rendere lo “sfumato” tipico leonardesco, così come nel riprodurre i dolci lineamenti femminili. Se confrontate i volti dipinti dai due artisti, potreste trovare notevoli somiglianze: il nostro Luini doveva avere una vera passione per il collega fiorentino!
Oltre a ispirarsi a Leonardo, però, Bernardino adorava anche la pittura fiamminga. Ne aveva studiato quella grande cura dei dettagli, delle minuzie, e della passione per la resa degli elementi vegetali. Cura, che si era impegnato lui stesso a riprodurre nelle sue opere, dando vita a elementi floreali che parevano emanare profumo dalla tela. La Madonna del Roseto, con la dolcezza della Vergine ammantata di color pesca, e i boccioli della parete di rose che la circondavano, era un perfetto esempio di quanto appena detto.
Ora che tutti avete in mente il dipinto, possiamo tornare alla storia…
Ebbene, quel giorno, l’orsetta Fernanda aveva deciso di fare qualcosa di speciale. Aveva deciso (a quanto sembrava) di dare una sistemata al roseto che cresceva alle spalle della Madonna. Motivo per cui, quando la Risolartista giunse davanti al quadro, la trovò tutta indaffarata a rinvasare una serie di giovani piantine di rose rampicanti, che dovevano essere giunte lì da poco. Peccando di curiosità come al solito, non poté fare a meno di chiedere spiegazioni all’amica orsetta…
Si trattava di un nuovo progetto che avrebbe voluto inaugurare presto, dal nome “Fiori a Brera”. L’idea le era venuta ripensando a quando l’antica direttrice della Pinacoteca, Fernanda Wittgens, aveva organizzato un’omonima iniziativa nei lontani anni ’50. A quei tempi, in occasione dell’evento milanese intitolato la “Settimana del Fiore”, anche lei aveva voluto far partecipare il suo bel museo ai festeggiamenti. Pensate che, da bravissima esperta di marketing (quando il marketing nei musei nemmeno esisteva), aveva avuto un’idea commerciale davvero geniale. Era riuscita a fare una delle prime collaborazioni tra un museo e un’azienda privata della storia: aveva coinvolto la Rinascente (sì: proprio i grandi magazzini milanesi!) in una campagna pubblicitaria straordinaria. Per quella settimana, un dipinto della Pinacoteca era stato esposto nelle vetrine luccicanti della Rinascente, con tanto di cartello che invitava ad andare a visitare in quei giorni Brera, che, per l’occasione, sarebbe stata adornata di fiori, e aperta fino a notte. Il numero di visitatori che riuscì ad attrarre in quel modo fu impressionante: 180 mila persone in una sola settimana!
Ecco: con lo stesso spirito imprenditoriale della direttrice Fernanda, anche lei, l’orsetta Fernanda, aveva intenzione di fare qualcosa di simile. Pensava davvero che potesse essere un modo per far riscoprire le meraviglie di Brera ai cittadini, spesso troppo impegnati per pensare anche solo di fare un giretto tra le sue sale. Chiaramente, bisognava cominciare dalle basi; bisognava partire con dei piccoli passi per far “rifiorire” letteralmente la Pinacoteca. Prima di pensare a organizzare un nuovo “Fiori a Brera”, con fiori veri per ogni sala, come era accaduto ai tempi, era il caso di sistemare quei fiori “dipinti” che se ne stavano rinsecchiti e smorti nei vari quadri. Negli anni ’50, la direttrice si era sicuramente curata di rinfoltire come prima cosa le chiome delle piante all’interno delle opere; altrimenti, tutti i boccioli fuori dalle cornici avrebbero fatto sfigurare i soggetti delle tele.
Con notevoli sforzi, l’orsetta era riuscita a trovare il contatto dell’erede di uno di quei vecchi giardinieri “dei dipinti”, che già in passato la Pinacoteca aveva assoldato al suo servizio. Come è facile immaginare, non basta un giardiniere qualunque per mettersi a potare gli alberi e piantare nuovi fiori all’interno di un quadro! Servono competenze e sensibilità particolari. Per fortuna, anche se molto rari, ancora qualche esemplare di giardiniere “dei dipinti” sul mercato lo si può trovare. È una professione in declino, ma ancora in vita, visita la loro magistrale importanza…
Di conseguenza, quell’ometto con cui la Risolartista si era scontrata poco prima, era proprio un “giardiniere dei dipinti”, che stava portando via tutti i rami secchi che affollavano il quadro della Madonna del Roseto. Dopo anni di abbandono (visto che nessun lavoratore competente in materia era più stato assunto), il roseto alle spalle di Maria era tutto rinsecchito: pochissimi erano i boccioli ancora in vita. Era necessario sostituire le piante, con esemplari nuovi, che potessero riportare il dipinto al suo splendore originale.
Così com’era ridotto, risultava accattivante per ben pochi visitatori; rimesso a nuovo, pieno di boccioli, avrebbe fatto tutto un altro effetto. Confidando nelle doti del giardiniere, l’orsetta sperava di poter cominciare a rendere di nuovo “rigogliosi” i dipinti della Pinacoteca, in attesa che diventassero tutti presentabili per l’evento “fiori a Brera” che avrebbe fatto presto. L’opera del Luini era un buon inizio.
La Risolartista, come penso siate anche voi, era davvero affascinata da questo progetto. Era affascinata dall’idea, ma ancor più dall’aver scoperto che, per conservare un quadro, non basta il lavoro dei restauratori, ma serve anche quello dei giardinieri!
Davanti all’invito a sporcarsi anche lei le mani di terra, e aiutare a piantare le nuove roselline nel dipinto, non se lo fece ripetere due volte. Abbandonò il cappotto in un angolo, e si rimboccò le maniche, per cominciare a rinvasare la sua prima rosa destinata alla Madonna del Luini. Già si sentiva parte di quella grande opera che sarebbe diventata “Fiori a Brera”. Già non vedeva l’ora di vedere come sarebbe stato bello il quadro, una volta sistemato per benino, con tutti i suoi nuovi boccioli. Non ci sarebbe stato un altro roseto al pari di quello: la Pinacoteca avrebbe fatto invidia al vicino Orto Botanico!
Il Bambinello era nato. Era nato anche alla Pinacoteca di Brera. Così come i pastori, secoli e secoli prima, avevano ricevuto l’annuncio da un angelo, così anche la Risolartista sentì una chiamata speciale. Osservando il presepe che aveva costruito con tanta cura sotto il suo …
Era la Vigilia di Natale, e la Risolartista aveva deciso di passare quel magico tempo di attesa nella sua seconda casa… La Pinacoteca di Brera, molto più tranquilla del solito, la circondava con il suo tepore variopinto, mentre ormai il sole scompariva all’orizzonte. Pochi erano …
Il tempo di Avvento è un’occasione di preparazione all’arrivo di Cristo. È un tempo in cui disporre la propria anima al Natale, e alla venuta del Salvatore atteso da secoli. Allo stesso modo, artisticamente parlando, i pittori di Bergamo e Brescia attivi nella prima metà del Cinquecento fanno da “Avvento” di un grande personaggio: il Caravaggio. La sua maestria straordinaria non sarebbe mai esistita, se questi non ne avessero tracciato il cammino di apprendimento.
Continuando con la nostra metafora sacro-pittorica, se la venuta di Gesù fu più volte annunciata da figure bibliche, qui il profeta è uno storico dell’arte acuto e lungimirante: Roberto Longhi. Ed è dalle sue parole che possiamo cominciare questa preparazione al “Natale caravaggesco”, facilitata a noi Milanesi dalle quattro opere esposte a Palazzo Marino in questo periodo…
“La preparazione del naturalismo seicentesco quale si manifesta in Caravaggio è data da una forte corrente naturalistica che permea tutto il territorio Lombardo-Veneto per due terzi del secolo XVI. Tale tendenza si manifesta più pregnante di risultati futuri in […] grandi artisti, che distribuiscono la loro operosità nel Bresciano e nella Bergamasca.”
… Chi sono, dunque, questi grandi artisti? E che cosa insegnarono al Caravaggio?
Cominciamo con i nomi: Lorenzo Lotto, Savoldo, Moretto e Moroni. Quattro personaggi curiosi, ciascuno con le sue uniche caratteristiche, che vi invito ad approfondire ulteriormente. Se volessimo parlarne per bene, non finiremmo più! Dunque, è meglio fare un sunto di quanto ci può interessare di loro in questo Avvento, aiutandoci con le opere offerteci dalla mostra milanese.
Partiamo dal primo: Lorenzo Lotto. Pittore veneziano, dall’animo sensibile come pochi, capace di raccontare il vero carattere e la personalità umana con delle semplici pennellate. Guardate qualcuno dei suoi volti, e potrete fare conoscenza di persona con i protagonisti. Occhi parlanti, incarnati estremamente realistici, ed espressioni più che eloquenti. Una naturalezza che il Caravaggio cercherà di riprendere in ognuna delle sue opere.
Nelle “Nozze Mistiche di Santa Caterina e Niccolò Bonghi”, che vedete esposte, vi è un esempio dei suddetti volti più che umani. Non c’è n’è uno che abbia l’espressione uguale all’altra: i giochi di sguardi si rincorrono sulla tela, mentre qualcuno si rivolge direttamente a noi spettatori.
Bellissimo, poi, è l’intreccio di mani che vedete al centro, e che ci porta l’attenzione sul Bambinello, intento a mettere l’anello al dito di Santa Caterina (come l’iconografia dello sposalizio richiedeva). Le pose, come è facile intendere, sono molto particolari: il Lotto amava cimentarsi in composizioni umane “pittoresche”!
Altro dettaglio sono… i dettagli. Dettagli minuziosi, di precisione fiamminga, che ci riportano vesti aristocratiche contemporanee al pittore (e non certo all’epoca della santa!), ricordandoci che Caterina era una donna nobile. I colori intensi e sgargianti, ripresi dal tonalismo di Tiziano e Giorgione, saranno un altro elemento apprezzato dal Caravaggio.
Infine, vi invito a soffermarvi su quella campitura grigia che vedete in alto: è quanto si è dovuto fare per riparare il buco lasciato da qualche soldato che, a quanto si dice, apprezzò a tal punto ciò che era dipinto lì, da portarselo a casa come souvenir. Le fonti ci raccontano di una finestra (di cui abbiamo solo il davanzale con i tappeti) che si apriva su uno splendido paesaggio lombardo; così bello, da poter essere tagliato via per costituire un’opera a sé. Per quella barbara azione di un ignoto, oggi possiamo solo ammirare metà di questo dipinto; ma tanto ci basta per innamorarcene…
Nozze mistiche di Santa Caterina, Lotto
Passiamo al secondo protagonista dell’Avvento, ossia il Moroni. Anche di lui, abbiamo uno “Sposalizio di Santa Caterina con offerente”, gentilmente prestato dalla Pinacoteca di Brera.
L’artista in questione è veramente lombardo, originario di Albino; il precedente, poteva dirsi un lombardo “acquisito”, in quanto lavorò a lungo tra queste terre.
Giovan Battista Moroni era celebre soprattutto per i suoi “ritratti borghesi”: il “ritratto di stato” formale di Tiziano, declinato in una versione più quotidiana e provinciale. Niente pose impalate, bensì gesti naturali e volti estremamente umani.
Qui, l’umanità la ritroviamo in ciascuno dei protagonisti: dall’offerente inginocchiato (non ben identificato), al San Francesco che ci osserva, alle due donne e al Bambino. Curioso il fatto che, in questo caso, egli non stia offrendo a Caterina il solito anello, bensì una rosa. Potrebbe essere un rimando a quello che già sarà il suo destino di martire, che capiamo anche dal suo attributo (la ruota dentata), rappresentato in basso a sinistra. Se voleste fare un bel confronto pittorico “colto”, vi invito ad andare al Museo Poldi Pezzoli, e chiedere di vedere la “Sacra Famiglia con San Giovannino” del Moretto: noterete un bel po’ di somiglianze!
Sposalizio mistico di Santa Caterina e offerente, Moroni
Già che abbiamo citato il Moretto, continuiamo con la sua opera in mostra, ossia la celebre “Pala Rovellio”. Si tratta di un dipinto pieno di curiosità interessantissime, che il Caravaggio non poté che ammirare con riguardo.
In quanto a origini, il Moretto era proprio bresciano: siamo nel cuore della nostra provincia di interesse. Inoltre, possiamo dire che egli sia tra le fonti più apprezzate dal nostro Merisi, che ne riprese tanto i panneggi dagli effetti luministici esemplari, quanto certe pose dei soggetti. Se volete un esempio che esula dalle quattro opere esposte, cercate della “Madonna di Paitone”, e confrontatela con la “Madonna dei Pellegrini” caravaggesca. Rivedrete lo stesso atteggiamento della Vergine.
Ma non divaghiamo, e concentriamoci sulla nostra pala. Si chiama “Rovellio”, in quanto fu commissionata dal signor Rovellio: un maestro di scuola (che qualcuno dice sia ritratto nell’opera) elementare, che volle un quadro per invocare la benedizione della Madonna sui suoi allievi.
Colpisce subito la commistione di sacro e di contemporaneo che si ritrova nei dettagli. Guardate ai bimbi e al vecchio in primo piano. Egli è San Nicola di Bari, santo protettori dei bambini, che furono da lui salvati in numerose occasioni. Ad esempio, sottrasse le tre figlie di un nobile decaduto da un destino di prostituzione, donando un sacchetto di monete d’oro a ciascuna. In questo modo, avrebbero avuto una dote sufficiente per potersi sposare. Tali sacchetti (in forma di palle) sono raffigurati in mano a uno degli scolaretti. Ancora, il San Nicola riportò in vita i bimbi di un macellaio, che li aveva bolliti e messi sotto sale, per poterne vendere la carne. Insomma, capite bene come quest’uomo sia stato un grandissimo benefattore. Il Moretto non manca di ricordarcelo in più punti della sua pala (le palle d’oro, la mitria, il bastone con appese le monete, e i bambini stessi), collegandosi, però, alla realtà del tempo. Infatti, quelli che sono i fanciulli che fanno da “attributo” del santo, sono anche gli scolari del maestro Rovellio, con tanto di libretti sotto il braccio, e vesti ricche e contemporanee. Proprio queste vesti sono un dettaglio esemplare dell’opera, così definite e rese luministicamente bene, da sembrar vere! Possiamo goderne almeno quanto doveva averne goduto il Caravaggio, che si impegnò in prima persona, per dipingere al pari gli abiti dei suoi capolavori.
Pala Rovellio, Moroni
Giungiamo all’ultimo protagonista: il Savoldo. Anche lui lombardo, e attivo nel bresciano e bergamasco. Anche lui modello esemplare per il nostro artista, e, forse, quello da cui più di tutti riprese l’uso della luce. Gian Girolamo Savoldo, infatti, era capace di creare spettacolari contrasti di ombre e chiarori, giocando con le superfici e i dettagli.
Qui abbiamo un’ “Adorazione dei Pastori” molto particolare (anche se un po’ rovinata), in cui subito vediamo la suddetta bravura nella luce. Al contempo, c’è da sottolineare la naturalezza dell’ambiente e delle figure che sono protagoniste di questo notturno illuminato non dalla luna, ma dall’angelo annunciante. Le vesti sembrano “liquide”, e i volti intensamente espressivi. Per non parlare, poi, di quella capanna diroccata, con un giovane fico che vi si arrampica coraggioso. Ultima nota: l’iconografia ripresa dai Fiamminghi dei pastori che si “affacciano” sulla scena della nascita. Una composizione curiosa, insolita, che ci regala un ulteriore spunto di riflessione.
Adorazione dei pastori, Savoldo
E, con il quarto artista lombardo, abbiamo concluso il nostro Avvento. Ora siamo pronti ad accogliere la venuta del Caravaggio (e di Cristo), sapendo qualcosa di più sull’origine della sua pittura. Ora siamo anche pronti per rivolgerci con curiosità a Bergamo e Brescia, future capitali della cultura nel 2023, che si meritano tutto il nostro riguardo. Grazie all’intuizione lungimirante di Roberto Longhi, questi artisti così unici, rimasti in secondo piano per anni, sono tornati a splendere di luce e interesse. Non resta che approfondirli ancor più, e riconoscerne il valore… cogliendo l’occasione per far sentire l’orgoglio patriottico della nostra Italia (e soprattutto della Lombardia!).
La parola “Grand Tour” ci riporta subito nel cuore del Settecento europeo: un mondo di giovani aristocratici, desiderosi di completare la loro formazione con un lungo viaggio in Italia. Inglesi prima di tutto, poi francesi, tedeschi, fiamminghi e persino russi: i rampolli delle casate più …