Mese: Dicembre 2021

Bernardino Luini

Bernardino Luini

L’ARTISTA Bernardino Scapi, meglio conosciuto come Luini, nacque sul Lago Maggiore verso la fine del ‘400, e si formò probabilmente attorno a Verona. In breve, però, fece il suo ritorno in terra lombarda; terra a cui il suo nome rimarrà per sempre legato. Notoriamente, il nostro Bernardino 

Fiabe Braidensi – Nel Presepe del Bergognone

Fiabe Braidensi – Nel Presepe del Bergognone

Il Bambinello era nato. Era nato anche alla Pinacoteca di Brera. Così come i pastori, secoli e secoli prima, avevano ricevuto l’annuncio da un angelo, così anche la Risolartista sentì una chiamata speciale.  Osservando il presepe che aveva costruito con tanta cura sotto il suo 

Fiabe braidensi – “Sono Fernanda l’orsetta di Brera”

Fiabe braidensi – “Sono Fernanda l’orsetta di Brera”

Era la Vigilia di Natale, e la Risolartista aveva deciso di passare quel magico tempo di attesa nella sua seconda casa…

La Pinacoteca di Brera, molto più tranquilla del solito, la circondava con il suo tepore variopinto, mentre ormai il sole scompariva all’orizzonte. Pochi erano i visitatori (quasi tutti stranieri) che gironzolavano affascinati nelle grandi sale napoleoniche. I Milanesi, a quanto pareva, avevano deciso di trascorrere altrove il loro 24 dicembre. La piccola artista, però, era diversa dalla gente comune: per lei, la Vigilia migliore poteva essere solo quella in compagnia dei suoi amati pittori braidensi. Dopo tutto, se il Natale era prima di tutto la venuta del Bambinello, vederlo ritratto quasi su ogni parete era un buon modo per aspettarlo a braccia aperte. Piuttosto che riempirsi gli occhi con le solite lucine e i pacchetti, lì si poteva osservare il visino dolce di Gesù, dipinto dal Luini o dal Solario. Lì si poteva ammirare la Madonna, con le sue vesti morbidamente panneggiate, oppure figurarsi i lontani paesaggi nei dintorni di Betlemme. Insomma, una Vigilia di Natale passata alla Pinacoteca era davvero speciale.

La magia di quei momenti, però, stava per essere messa in secondo piano, da quello che accadde poco dopo. 

Mentre era intenta a scrutare i ritratti del Lotto, nella piccola saletta chiamata “Galleria dei Ritratti” (… perché piena di ritratti!), la Risolartista si accorse di un curioso pacchetto regalo incartato per benino, con tanto di fiocco, abbandonato in un angolo. Subito pensò che qualche bimbo, nella fretta di vedere tutte le sale, l’avesse perduto lì. Pensò di prenderlo con sé, sperando che ci fosse scritto qualche indizio sul suo destinatario. In effetti, un destinatario c’era, ma era lei.

Sul bigliettino, con grafia minuziosa ed elegante, c’era un messaggio di auguri con il suo nome. E c’era persino il mittente: il signor Bradburne, il direttore della Pinacoteca. 

“A un’artista speciale, dono un’amica speciale con cui condividere e costruire il nuovo museo vivente.” 

Che frase enigmatica. Il “nuovo museo vivente”… che cosa poteva significare? La Risolartista, in realtà, un’idea ce l’aveva. Il “museo vivente” era il progetto che Fernanda Wittgens, direttrice di Brera negli anni ’50, avrebbe voluto realizzare. Si trattava di una visione innovativa del modo di accogliere i visitatori al museo: una vera sovversione della tradizione. Se i musei avevano sempre pensato solo a esporre la loro bella collezione (dando poca importanza ai visitatori e alla loro soddisfazione), lei propose per prima un obiettivo diverso. Il suo museo vivente avrebbe dovuto aprirsi al pubblico, e ai cittadini prima di tutto, invitandoli a dialogare con le opere, e a lasciarsi coinvolgere e appassionare. Brera sarebbe diventata così un punto importante della città, un luogo di visita quotidiano per le persone, un posto in cui passare il proprio tempo imparando e divertendosi allo stesso tempo. 

… Era un progetto bellissimo. Un progetto, che, però, fu bruscamente interrotto con la morte della grande direttrice. Per fortuna, il suo successore, il signor Russoli, si impegnò a portarlo avanti. 

Dopo di lui, ci fu un lungo periodo di “stallo”, in cui tutti i progressi che Brera aveva fatto (pensate che era arrivata anche a ospitare sfilate di moda!) andarono perduti. Finché, non giunse un nuovo personaggio pronto a ricostruire il museo vivente di Fernanda: il signor James Bradburne. La strada era ancora lunga, ma già il suo impegno per aprire la Pinacoteca ad accogliere e appassionare i visitatori si vedeva.

Quel regalo proveniva da lui. Ed era per la Risolartista: forse anche lei, un giorno, avrebbe potuto prendere in mano il progetto di Fernanda, contribuendo in qualche modo alla sua realizzazione. Nel frattempo, continuava a imparare, a comprendere e conoscere lo spirito di Brera fino in fondo. 

Come è facile immaginare, non seppe resistere alla tentazione di scoprire cosa ci fosse nel pacchetto, e lo scartò. Vi trovò un’orsetta di pezza, color caramello, o meglio  color “Terra di Siena”. Era veramente adorabile. Certo, però, non capiva come l’avrebbe potuta aiutare a costruire il museo vivente: era pur sempre un giocattolo!

Chissà come mai, la magia del Natale (e di Brera) non ha mai fine. Le bastò metterla nello zaino, e portarla davanti al autoritratto di Sofonisba Anguissola (una pittrice donna!), perché questa cominciasse a parlare. 

Si chiamava Fernanda… proprio come la vecchia direttrice. In effetti, era stata proprio lei a cucirla, perché le facesse compagnia, prima in carcere, e poi nel suo ufficio di direzione. Dovete sapere, che Fernanda fu una grandissima donna, che, per difendere i suoi ideali, durante la Seconda Guerra mondiale, finì persino in prigione, per aver aiutato alcuni ebrei. Ciò che più ci interessa ricordare di lei qui, però, è il contributo che diede alla Pinacoteca, lottando per ricostruirla dopo che era stata distrutta dai bombardamenti. 

Come disse l’orsetta, proprio nel periodo più buio della sua vita, Fernanda l’aveva creata, perché le potesse dare conforto e aiuto a rimanere determinata verso i suoi obiettivi. Anno dopo anno, lei stessa, con i suoi occhietti di tessuto, aveva visto Brera rinascere, e diventare sempre più ricca e affollata. Da brava orsetta che ci sapeva fare con i bambini, aveva contribuito anche lei a ideare qualche proposta per i più piccoli: anche loro avevano il diritto di conoscere e capire le opere conservate in quelle bellissime sale! In fondo, gli scolaretti di allora, sarebbero presto diventati grandi; avendo già una certa cultura artistica, avrebbero potuto passarla ai loro figli, costruendo il futuro del museo. 

Potete capire come l’orsetta Fernanda fosse tanto brillante come “assistente museale”, quanto coltissima di pittura di ogni periodo. La direttrice era una storica dell’arte: si era impegnata fin da subito a passarle buona parte della sua cultura artistica. In fondo, non era possibile aiutare a a far nascere il museo vivente, senza conoscere il suo cuore da valorizzare. Un cuore fatto di opere e artisti del passato, meritevoli di essere condivisi con il pubblico più ampio possibile di cittadini. 

A sentire questi discorsi, la Risolartista rimase estasiata. Finalmente avrebbe avuto una compagna di passeggiate per le sale napoleoniche, nonché un’aiutante nel suo progetto per il futuro. Il signor Bradburne la aveva fatto davvero un meraviglioso regalo di Natale. 

Con l’orsetta Fernanda sulla spalla, ricominciò ad ammirare il ritratto di Sofonisba, certa che l’amica le avrebbe fatto scoprire qualcosa di nuovo. Non a caso, quel dipinto era uno dei preferiti di entrambe…

Vincenzo Foppa

Vincenzo Foppa

L’ARTISTA Vincenzo Foppa nacque a Brescia, intorno al 1430. Poche sono le notizie della sua formazione; il Vasari ci dice che si recò a Padova, dove ebbe l’occasione di imparare dall’arte di Mantegna e di Donatello, che operavano lì in quel periodo.  Se il critico Roberto Longhi lo definiva il “padre del 

Un’Annunciazione al profumo di incenso

Un’Annunciazione al profumo di incenso

Sono le parole di Roberto Longhi ad accompagnarci per mano verso quest’opera: “Il gran fiorone dell’angelo preso dall’ombra nel gran boccio del viso s’impiuma nelle ali di dolce torpidezza,[…] le linee del volo nella veste hanno andari ellittici allentati e sfocati, e così lenti sono 

L’Avvento del Caravaggio: i pittori bresciani e bergamaschi del primo ‘500

L’Avvento del Caravaggio: i pittori bresciani e bergamaschi del primo ‘500

Il tempo di Avvento è un’occasione di preparazione all’arrivo di Cristo. È un tempo in cui disporre la propria anima al Natale, e alla venuta del Salvatore atteso da secoli. Allo stesso modo, artisticamente parlando, i pittori di Bergamo e Brescia attivi nella prima metà del Cinquecento fanno da “Avvento” di un grande personaggio: il Caravaggio. La sua maestria straordinaria non sarebbe mai esistita, se questi non ne avessero tracciato il cammino di apprendimento. 

Continuando con la nostra metafora sacro-pittorica, se la venuta di Gesù fu più volte annunciata da figure bibliche, qui il profeta è uno storico dell’arte acuto e lungimirante: Roberto Longhi. Ed è dalle sue parole che possiamo cominciare questa preparazione al “Natale caravaggesco”, facilitata a noi Milanesi dalle quattro opere esposte a Palazzo Marino in questo periodo…

“La preparazione del naturalismo seicentesco quale si manifesta in Caravaggio è data da una forte corrente naturalistica che permea tutto il territorio Lombardo-Veneto per due terzi del secolo XVI. Tale tendenza si manifesta più pregnante di risultati futuri in […] grandi artisti, che distribuiscono la loro operosità nel Bresciano e nella Bergamasca.”

… Chi sono, dunque, questi grandi artisti? E che cosa insegnarono al Caravaggio?

Cominciamo con i nomi: Lorenzo Lotto, Savoldo, Moretto e Moroni. Quattro personaggi curiosi, ciascuno con le sue uniche caratteristiche, che vi invito ad approfondire ulteriormente. Se volessimo parlarne per bene, non finiremmo più! Dunque, è meglio fare un sunto di quanto ci può interessare di loro in questo Avvento, aiutandoci con le opere offerteci dalla mostra milanese.

Partiamo dal primo: Lorenzo Lotto. Pittore veneziano, dall’animo sensibile come pochi, capace di raccontare il vero carattere e la personalità umana con delle semplici pennellate. Guardate qualcuno dei suoi volti, e potrete fare conoscenza di persona con i protagonisti. Occhi parlanti, incarnati estremamente realistici, ed espressioni più che eloquenti. Una naturalezza che il Caravaggio cercherà di riprendere in ognuna delle sue opere. 

Nelle “Nozze Mistiche di Santa Caterina e Niccolò Bonghi”, che vedete esposte, vi è un esempio dei suddetti volti più che umani. Non c’è n’è uno che abbia l’espressione uguale all’altra: i giochi di sguardi si rincorrono sulla tela, mentre qualcuno si rivolge direttamente a noi spettatori. 

Bellissimo, poi, è l’intreccio di mani che vedete al centro, e che ci porta l’attenzione sul Bambinello, intento a mettere l’anello al dito di Santa Caterina (come l’iconografia dello sposalizio richiedeva). Le pose, come è facile intendere, sono molto particolari: il Lotto amava cimentarsi in composizioni umane “pittoresche”!

Altro dettaglio sono… i dettagli. Dettagli minuziosi, di precisione fiamminga, che ci riportano vesti aristocratiche contemporanee al pittore (e non certo all’epoca della santa!), ricordandoci che Caterina era una donna nobile. I colori intensi e sgargianti, ripresi dal tonalismo di Tiziano e Giorgione, saranno un altro elemento apprezzato dal Caravaggio. 

Infine, vi invito a soffermarvi su quella campitura grigia che vedete in alto: è quanto si è dovuto fare per riparare il buco lasciato da qualche soldato che, a quanto si dice, apprezzò a tal punto ciò che era dipinto lì, da portarselo a casa come souvenir. Le fonti ci raccontano di una finestra (di cui abbiamo solo il davanzale con i tappeti) che si apriva su uno splendido paesaggio lombardo; così bello, da poter essere tagliato via per costituire un’opera a sé. Per quella barbara azione di un ignoto, oggi possiamo solo ammirare metà di questo dipinto; ma tanto ci basta per innamorarcene…

Nozze mistiche di Santa Caterina, Lotto

Passiamo al secondo protagonista dell’Avvento, ossia il Moroni. Anche di lui, abbiamo uno “Sposalizio di Santa Caterina con offerente”, gentilmente prestato dalla Pinacoteca di Brera. 

L’artista in questione è veramente lombardo, originario di Albino; il precedente, poteva dirsi un lombardo “acquisito”, in quanto lavorò a lungo tra queste terre. 

Giovan Battista Moroni era celebre soprattutto per i suoi “ritratti borghesi”: il “ritratto di stato” formale di Tiziano, declinato in una versione più quotidiana e provinciale. Niente pose impalate, bensì gesti naturali e volti estremamente umani. 

Qui, l’umanità la ritroviamo in ciascuno dei protagonisti: dall’offerente inginocchiato (non ben identificato), al San Francesco che ci osserva, alle due donne e al Bambino. Curioso il fatto che, in questo caso, egli non stia offrendo a Caterina il solito anello, bensì una rosa. Potrebbe essere un rimando a quello che già sarà il suo destino di martire, che capiamo anche dal suo attributo (la ruota dentata), rappresentato in basso a sinistra. Se voleste fare un bel confronto pittorico “colto”, vi invito ad andare al Museo Poldi Pezzoli, e chiedere di vedere la “Sacra Famiglia con San Giovannino” del Moretto: noterete un bel po’ di somiglianze!

Sposalizio mistico di Santa Caterina e offerente, Moroni

Già che abbiamo citato il Moretto, continuiamo con la sua opera in mostra, ossia la celebre “Pala Rovellio”. Si tratta di un dipinto pieno di curiosità interessantissime, che il Caravaggio non poté che ammirare con riguardo.

In quanto a origini, il Moretto era proprio bresciano: siamo nel cuore della nostra provincia di interesse. Inoltre, possiamo dire che egli sia tra le fonti più apprezzate dal nostro Merisi, che ne riprese tanto i panneggi dagli effetti luministici esemplari, quanto certe pose dei soggetti. Se volete un esempio che esula dalle quattro opere esposte, cercate della “Madonna di Paitone”, e confrontatela con la “Madonna dei Pellegrini” caravaggesca. Rivedrete lo stesso atteggiamento della Vergine.

Ma non divaghiamo, e concentriamoci sulla nostra pala. Si chiama “Rovellio”, in quanto fu commissionata dal signor Rovellio: un maestro di scuola (che qualcuno dice sia ritratto nell’opera) elementare, che volle un quadro per invocare la benedizione della Madonna sui suoi allievi. 

Colpisce subito la commistione di sacro e di contemporaneo che si ritrova nei dettagli. Guardate ai bimbi e al vecchio in primo piano. Egli è San Nicola di Bari, santo protettori dei bambini, che furono da lui salvati in numerose occasioni. Ad esempio, sottrasse le tre figlie di un nobile decaduto da un destino di prostituzione, donando un sacchetto di monete d’oro a ciascuna. In questo modo, avrebbero avuto una dote sufficiente per potersi sposare. Tali sacchetti (in forma di palle) sono raffigurati in mano a uno degli scolaretti. Ancora, il San Nicola riportò in vita i bimbi di un macellaio, che li aveva bolliti e messi sotto sale, per poterne vendere la carne. Insomma, capite bene come quest’uomo sia stato un grandissimo benefattore. Il Moretto non manca di ricordarcelo in più punti della sua pala (le palle d’oro, la mitria, il bastone con appese le monete, e i bambini stessi), collegandosi, però, alla realtà del tempo. Infatti, quelli che sono i fanciulli che fanno da “attributo” del santo, sono anche gli scolari del maestro Rovellio, con tanto di libretti sotto il braccio, e vesti ricche e contemporanee. Proprio queste vesti sono un dettaglio esemplare dell’opera, così definite e rese luministicamente bene, da sembrar vere! Possiamo goderne almeno quanto doveva averne goduto il Caravaggio, che si impegnò in prima persona, per dipingere al pari gli abiti dei suoi capolavori.

Pala Rovellio, Moroni

Giungiamo all’ultimo protagonista: il Savoldo. Anche lui lombardo, e attivo nel bresciano e bergamasco. Anche lui modello esemplare per il nostro artista, e, forse, quello da cui più di tutti riprese l’uso della luce. Gian Girolamo Savoldo, infatti, era capace di creare spettacolari contrasti di ombre e chiarori, giocando con le superfici e i dettagli.

Qui abbiamo un’ “Adorazione dei Pastori” molto particolare (anche se un po’ rovinata), in cui subito vediamo la suddetta bravura nella luce. Al contempo, c’è da sottolineare la naturalezza dell’ambiente e delle figure che sono protagoniste di questo notturno illuminato non dalla luna, ma dall’angelo annunciante. Le vesti sembrano “liquide”, e i volti intensamente espressivi. Per non parlare, poi, di quella capanna diroccata, con un giovane fico che vi si arrampica coraggioso. Ultima nota: l’iconografia ripresa dai Fiamminghi dei pastori che si “affacciano” sulla scena della nascita. Una composizione curiosa, insolita, che ci regala un ulteriore spunto di riflessione. 

Adorazione dei pastori, Savoldo

E, con il quarto artista lombardo, abbiamo concluso il nostro Avvento. Ora siamo pronti ad accogliere la venuta del Caravaggio (e di Cristo), sapendo qualcosa di più sull’origine della sua pittura. Ora siamo anche pronti per rivolgerci con curiosità a Bergamo e Brescia, future capitali della cultura nel 2023, che si meritano tutto il nostro riguardo. Grazie all’intuizione lungimirante di Roberto Longhi, questi artisti così unici, rimasti in secondo piano per anni, sono tornati a splendere di luce e interesse. Non resta che approfondirli ancor più, e riconoscerne il valore… cogliendo l’occasione per far sentire l’orgoglio patriottico della nostra Italia (e soprattutto della Lombardia!).

Andrea Solario

Andrea Solario

L’ARTISTA Che fosse “figlio d’arte” non si discute: nato da una padre carpentiere, membro della nota famiglia di artisti dei Solari, che vanta nomi emblematici quale Guiniforte Solari (architetto ducale di Francesco Sforza). Anche il fratello, Cristoforo, era un celebre scultore dell’epoca, attivo alla Certosa di Pavia.  Volendo 

Anche l’Annunciazione di Tiziano ha i suoi “effetti speciali”

Anche l’Annunciazione di Tiziano ha i suoi “effetti speciali”

Era tradizione che, in pieno periodo natalizio, si andasse a vedere quell’opera d’arte, ospitata dal Museo Diocesano in occasione delle feste. Quell’anno, si trattava dell’Annunciazione napoletana di Tiziano: un capolavoro poco noto, ma assai speciale.  Il pomeriggio freddo e preannunciante una nevicata era ottimo per 

L’immobile realtà di un Novecento quattrocentesco

L’immobile realtà di un Novecento quattrocentesco

Parlare di un “Novecento quattrocentesco” potrebbe sembrare una contraddizione, per non dire un bisticcio di parole. Tuttavia, se si sa dove andare a cercare nel panorama artistico del XX secolo, questo ossimoro acquista un senso improvviso. Si tratta del cosiddetto “Realismo Magico”: non era una corrente vera e propria, bensì l’intento di un gruppo di pittori degli anni ’20, che vollero “ritornare all’ordine” del Rinascimento. Dopo un periodo di eccessi futuristi, comparve la voglia di riprendere quei caratteri classicheggianti e realistici che tanto erano piaciuti alle corti medicee del Quattrocento. Caratteri reinterpretati in chiave contemporanea, ovviamente. 

Per avere un’idea di quali siano le opere da ricondurre a questo curioso e unico movimento (anche se “movimento” non è, noi lo chiameremo così), possiamo sfruttare il percorso proposto da Palazzo Reale sull’argomento. Dopo trent’anni dall’ultima volta in cui Milano aveva visto qualche esposizione del genere, si è deciso di riportare luce sul Realismo Magico, tanto affascinante, quanto di difficile comprensione. Vediamo di inoltrarci un po’ più nelle sue atmosfere così particolari…

La prima cosa da fare è rispolverare le nostre conoscenze sul Rinascimento. Non spaventatevi: non ci interessa tutto, ma solo qualche autore e carattere emblematico, che vale la pena avere in mente per poter apprezzare l’argomento.

L’arte rinascimentale si distingue per la rinnovata attenzione all’uomo, messo al centro della riflessione pittorica. Un uomo protagonista del presente, abitante delle “Città Ideali” che sbocciano dalle penne degli architetti dell’epoca. Il Quattrocento è tempo di grandi fioriture culturali, che vanno dalla pittura, alla letteratura, spaziando in tutte le discipline dell’intelletto. È tempo di ricerca di perfezione, di rappresentazione fedele della realtà, e di studio di prospettiva ed effetti luministici rigorosi.

Come artisti, i nostri realisti magici riprendono soprattutto Piero della Francesca, Antonio Pollaiolo, e Masaccio. 

Del primo dobbiamo ricordare quelle atmosfere intellettuali di equilibrio e immobilità, in cui la luce è così chiara e pacata da sembrare liquida. Pensate alla “Pala di Brera”, con la Madonna circondata dai santi nel mezzo di un’architettura candida e classica, con la conchiglia che la sormonta nell’abside. Pensate a quei colori dolci e accesi, con i giochi di luce della “lumettatura” sull’armatura del committente inginocchiato. Ecco: questa atmosfera di perfezione realistica, di prospettiva geometrica e di chiarore diffuso è quanto piace molto agli artisti novecenteschi. 

Passiamo al Pollaiolo. Di lui, solo un’opera emblematica ci serve: la celeberrima “Dama” esposta al Poldi Pezzoli. Figuratevi in mente quel profilo ineccepibile e raffinato, quei capelli acconciati ad arte con tanto di retina, e i gioielli che le adornano la scollatura. Una delizia di fanciulla, insomma.

Infine, c’è Masaccio, con le sue figure plastiche e solide, che paiono sculture dipinte. Negli affreschi della Cappella Brancacci, si notano certi volti scolpiti con vigore, molto espressivi, dagli occhi penetranti, e dalle fattezze che paio modellate con la creta. Questa pastosità è un ulteriore elemento chiave che ritorna secoli e secoli dopo.

Concluso il ripasso rinascimentale, entriamo nel cuore della mostra di Palazzo Reale. Vale la pena soffermarsi sulla prima parte del percorso, piuttosto che annoiarsi fino in fondo. Se scorrete i quadri dall’inizio alla fine, noterete come le tele iniziali siano interessanti e rappresentative di cosa sia il Realismo Magico in questione. A poco a poco, però, il filo rosso si perde. Mentre in principio il Rinascimento reinterpretato in chiave modernista balza all’occhio a ogni passo, dopo la metà, ci si dimentica quasi il tema della mostra. Sarà perché gli artisti stessi, con il passare degli anni, hanno abbandonato l’intento chiave del movimento, sarà (più probabilmente) per la volontà di infarcire troppo il percorso mostra. Tant’è, che se volete apprezzare questa arte particolarissima (e ne vale la pena davvero!), il consiglio è quello di gustarsi l’inizio, e di passare oltre rapidamente il resto.

Poche chiacchiere, abbiamo tentennato abbastanza…

Cominciamo con l’opera simbolo della mostra: la signora Silvana Cenni (chi sia non è dato a sapersi). Preciso subito che i curatori della mostra si sono “dimenticati” di includere delle didascalie parlanti, che insegnino qualcosa al visitatore desideroso di leggere (e non di ascoltare). Pazienza: gustiamoci l’abito della donna, con tutte le sue piegoline minuziosamente definite, in perfetto stile rinascimentale. Gustiamoci il tessuto damascato su cui è appoggiata, che richiama estremamente quei broccati popolari presso le corti medicee.  

Ritratto di Silvana Cenni, Casorati

Continuiamo con le dame, concentrandoci sulla “Terra” di Achille Funi. Qui si nota anche nel titolo la volontà di rievocare il mondo classico, e la mitologia (come avveniva nel Rinascimento). La Terra è metafora per una fanciulla con un vassoio di frutta e verdura ben ricco, con elementi vegetali resi in modo realistico e definito. Peccato per la luce della sala (pessima…), che ci impedisce di apprezzarne a pieno i colori. Consoliamoci con il paesaggio che si scorge dalla finestra, con tanto di casette e colline dorate.

Terra, Funi

Giunge ora la figura femminile che più mi sembra rappresentativa del “Rinascimento novecentesco” o del “Novecento quattrocentesco”, come preferite chiamarlo. Si tratta della “Giovane Sposa” di Ubaldo Oppi. È questa una giovane donna, di età indefinita, dalla pelle così candida e luminosa, da rievocare nello stesso tempo la Madonna di Piero della Francesca e la Dama del Pollaiolo. Aggiungeteci la spilla che adorna la scollatura del vestito, e vi ricorderà ancor più la fanciulla del Poldi Pezzoli. Concentratevi, invece, sullo sfondo, e coglierete la “Città Ideale” reinterpretata in chiave contemporanea. Se, nel Quattrocento, il modello di città perfetta era rappresentato con una serie di architetture classiche, poste in perfetta prospettiva geometrica, qui abbiamo lo stesso stile, ma edifici diversi. Trovandoci nel Novecento, non abbiamo più chiese e palazzi principeschi, ma un lussuoso “Eden Hotel” che mostra la sua insegna sulla sinistra. Costanti, però, sono la prospettiva, e il gusto per le pavimentazioni a marmi policromi, che ci ricollegano subito all’antico. 

La Giovane Sposa, Oppi

Vista quest’opera, si può dire di aver visto tutto, o quasi, della mostra. 

Voglio, però, accompagnarvi ancora per un paio di tappe significative. La prima è una tappa “riposante”, una sosta insomma. È il “Pomeriggio a Fiesole” di Baccio Maria Bacci (nome curioso…). Ecco una tavola apparecchiata per merenda, a cui stanno seduti due uomini e una donna, colti nell’atto di passare mollemente il tempo, in attesa di chissà quale evento. Un’altra fanciulla sta alla finestra, con occhi bassi, senza neppure accorgersi del bellissimo paesaggio di campagna che si scorge fuori. Malgrado il contesto bucolico, c’è più serietà che piacere e giovialità. Il motivo è oscuro; tuttavia, se pensiamo ancora all’arte quattrocentesca, sono innumerevoli gli esempi di figure “imbambolate” e serie, anche in contesti di festa…

Pomeriggio a Fiesole, Bacci

L’ultimo quadro è di De Chirico, anche se, per chi si aspetta i suoi soliti figurini geometrici, non sembra quasi suo. È l’ “Ottobrata”: una scena notturna, che è a metà tra l’Allegoria del Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti, e una serata immersa nel pieno dell’autunno. 

A proposito, credo di non aver richiamato il suddetto Lorenzetti fino ad ora. Ebbene, di lui ci interessano gli “Effetti del Buon Governo” del Palazzo Pubblico di Siena. Si tratta di quella città in cui tutto è armonico e produttivo; in cui si scorgono cittadini allegri e festosi, intenti a lavorare, o a divertirsi. Quello che sembra di rivedere qui, in De Chirico, è la stessa atmosfera gioviale e serena, indorata di colori ocra e arancioni, che modellano architetture non molto distanti dall’opera senese. Ulteriore particolare è quel putto volante sulla destra: c’è un analoga creatura alata anche nell’affresco di Lorenzetti. 

Ottobrata, De Chirico

Cercando di capire il senso di questa curiosa opera, possiamo dire conclusa la scoperta del Realismo Magico novecentesco. Lo dice anche il nome: è “magico”; dunque, troppa razionalità è bandita. L’intento di questi artisti era quello di farci riflettere sulla realtà che rappresentavano, così da trasmettere la complessità della loro riflessione. Una complessità che rimane spesso misteriosa, ma è anche questo il bello di un simile movimento. Un movimento curioso e unico nel suo genere, che ha un piede nel passato rinascimentale, e un piede nel presente. Un movimento che si impone un ritorno all’ordine dei grandi maestri, ma non sa resistere alla tentazione di aggiungere del contemporaneo all’altrimenti troppo perfetta Città Ideale. Tale “ideale”, infatti, si è visto con gli anni che non si è ancora realizzato…

Lorenzo Lotto

Lorenzo Lotto

L’ARTISTA Lorenzo Lotto nacque nel 1480, a Venezia. Tuttavia, c’è subito da dire che la sua fama di pittore non si legò mai a questa città, quanto piuttosto a contesti più piccoli, di “provincia”, quali potevano essere Bergamo, Treviso e Loreto. Il motivo? Una serie di personaggi “troppo grandi”