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Un’Annunciazione al profumo di incenso

Sono le parole di Roberto Longhi ad accompagnarci per mano verso quest’opera:

“Il gran fiorone dell’angelo preso dall’ombra nel gran boccio del viso s’impiuma nelle ali di dolce torpidezza,[…] le linee del volo nella veste hanno andari ellittici allentati e sfocati, e così lenti sono il moti della casacchetta di paradiso che un disegno leggero di broccatello ha il tempo di screziarla, come la natura ha tempo di operare miracoli in un fiore a lento sboccio.” 

“Morta campanula appare il manto della Vergine; e mistici laghi di liquido porfido e di lapislazzuli cliente, le vesti. 

Allora la colonna erodiana erosa nei ricami marmorei si perde come colonna d’incenso tra gli spazi colorati.” 

… Poetiche, non è vero?! Poetiche, quanto estremamente difficili da capire anche dopo un paio di letture. Il critico Roberto Longhi era un sottile conoscitore tanto di arte, quanto di letteratura. Era un vero poeta, capace di dare vita e valore a ogni tela che si trovava a commentare. In questa specifica descrizione, quello di cui dobbiamo fare tesoro, per avvicinarci all’Annunciazione di Tiziano, è l’incenso che sembra liberarsi nel mezzo del dipinto. Ricordatevi di quella “colonna erodiana” dai ricami marmorei, che si perde  in volute di fumo, come fosse un incensiere. Ne riparleremo tra poco.

Avendo cominciato con una frase del signor Longhi, è bene anche spiegare come mai sia stato scelto proprio lui come “presentatore”. Se andate a visitare di persona il capolavoro tizianesco al Museo Diocesano (in mostra in questo periodo natalizio), lo vedrete introdotto proprio da queste parole impresse sui muri. 

Dunque, se persino i curatori hanno voluto citare il critico nell’allestimento, un motivo sensato ci sarà. Dovete sapere che questo quadro è stato per secoli erroneamente attribuito a un tale Luca Giordano, che si raccontava avesse eseguito una copia dell’originale di Tiziano. Tale convinzione rimase fino al 1900, quando Roberto Longhi riconobbe la mano del celebre artista veneto, ripristinando la giusta paternità. Di conseguenza, possiamo dire che è grazie al signor Longhi, se, oggi, possiamo ammirare un simile capolavoro “tizianesco” per davvero, che arricchisce di un tassello importante la sua produzione.

Importante, perché opere come questa Annunciazione non si ricollegano con facilità a Tiziano. Egli è noto per ben altri dipinti (pensate alla Venere di Urbino…), che poco sembrano aver a che fare con lo stile di quanto ci troviamo qui davanti. Eppure, si tratta di una tela emblematica, tanto per il valore pittorico, quanto per la posizione “esclusiva” in cui era collocata in origine. 

Per poter apprezzare a dovere l’Annunciazione, cominciamo con un po’ di storia. Torniamo alla metà del 1500, a quando il signor Cosimo Pinelli, ricco banchiere genovese trapiantato a Napoli, acquistò una cappella in San Domenico Maggiore, con l’intento di decorarla e renderla cappella di famiglia. Tuttavia, fu il figlio Giovan Vincenzo a contattare Tiziano, commissionandogli l’opera. Dovete immaginarvela in questa splendida chiesa napoletana, in cui, ai tempi, faceva compagnia a una tela di Caravaggio, una di Raffaello, e altri dipinti degni di nota. Insomma, si trattava di una dimora di gran conto! 

Passiamo ora alle caratteristiche “intrinseche” dell’opera, ossia allo stile. Abbiamo qui un lavoro del periodo maturo di Tiziano, quando ormai egli era al culmine della sua ricerca poetica. Gli ultimi anni della sua vita furono caratterizzati da un grande interesse per le “macchie di colore” accostate in modo non più così perfetto come prima. Al “tonalismo” giorgionesco, l’artista sostituì effetti luministici di grande contrasto, capaci di dare incredibile espressività e drammaticità alle scene. 

Sempre il Longhi, descrisse questa sua nuova tendenza un “impressionismo magico”; un idealismo, che, proprio nell’Annunciazione, raggiunse il suo punto più alto. 

Ora capite il fascino di quella colonna ricamata, che sembra disperdersi in alto in volute di incenso, significante Maria come “santuario del Dio vivente”. Ora potete apprezzare quella colomba luminosa che squarcia le nubi, indirizzando la potenza divina verso la Madonna. Per non parlare, poi, di quell’angelo annunciante, con il giglio nella mano, e i piedi ben saldi a terra. Se aguzzate la vista, coglierete il suo manto di “broccatello” (come diceva il Longhi), tutto ricamato a fiori. Certo, potrebbe sembrare un po’ “grassoccio” e non perfettamente proporzionato; tuttavia, ciò che conta è la sua estrema intensità espressiva e prorompente. 

Ancora, osservate lo sfondo: c’è un paesaggio autunnale, forse il tipico “hortus conclusus” (ricorrente nell’iconografia di Maria), reso con macchie dorate e intense. 

Se vi metteste nei panni di un contemporaneo dell’epoca, magari anche fresco dei nuovi precetti dettati dal Concilio di Trento, arriccereste il naso per diversi motivi. 

Uno dei pregi di questa Annunciazione è anche la sua grande portata innovativa, soprattutto nelle scelte rappresentative dei soggetti. Ciò che più era discordante con i dettami del Concilio, era il fatto che l’Arcangelo fosse estremamente “terreno”. L’ideale sarebbe stato farlo arrivare in volo, oppure a bordo di una nuvoletta (come Tiziano aveva fatto in una precedente Annunciazione). Invece, il nostro artista aveva deciso di farlo giungere a piedi, quasi fosse umano come noi. 

Capite bene come si tratti di un’opera speciale sotto vari punti di vista. 

… Speciale, pur nella sua grande essenzialità. In fin dei conti, non ci sono che i soggetti principali. Manca ogni altro elemento che possa distrarre l’osservatore dal cogliere l’importanza del momento. 

Tiziano, giunto alla sua quinta versione della tematica dell’Annunciazione, era ormai diventato esperto!

Se la prima era molto “giovanile”, con qualche difetto prospettico, già la seconda era un po’ meglio. La terza, poi (oggi perduta), da quel che si capisce da una copia, era quella che più richiamava la tela in questione. Ce n’era anche una quarta, molto raffinata, e ricca di simbologie curiose, realizzata per la Scuola Grande di San Rocco (a Venezia).

Su quest’ultima mi soffermo, per citare qualcuno di quegli elementi aggiuntivi (assenti nella nostra versione), che spesso si vedono ricorrere, ma poco si capiscono. 

Dovete sapere, che gli artisti, per avere materiale su cui inventare la loro interpretazione del tema, si affidavano tanto al Vangelo di Luca, quanto al Protovangelo di Giacomo e al Vangelo dello pseudo Matteo. In questi, infatti, ci sono molti particolari aggiuntivi utili a “riempire il quadro”. 

nell’Annunciazione di San Rocco, ad esempio, vediamo un drappo di porpora: probabile simbolo della tela (destinata al tempio del Signore) che Maria stava tessendo (secondo Giacomo e lo pseudo Matteo) quando l’angelo arrivò da lei. Il cestino da cucito riconfermerebbe l’interpretazione. Altri due segni particolari sono la mela cotogna e la pernice. Cosa potranno mai significare? La prima richiama Eva, rendendo Maria colei che riscatterà il Peccato Originale; la seconda è simbolo di verginità, esattamente come il giglio bianco.

Elemento comune a questa annunciazione, e alla nostra napoletana, è la colomba, che simboleggia l’irruzione del divino nell’umano: Dio si fa uomo grazie alla Madonna.

Con quest’interpretazione nella mente, torniamo per un’ultima volta davanti al quadro, cercando di penetrare nel cuore del messaggio. La versione che abbiamo sotto gli occhi è quella che più ci aiuta a percepire l’importanza e l’intensità di quel momento di annunciazione. Tutte quelle volute di incenso avvolgono la scena, conferendo estrema solennità. È lì, in quel “sì” di Maria, che la chiamata del Signore trova risposta. È lì, che la Vergine si affida a Dio, perché realizzi il suo progetto di salvezza. È lì che ha principio ciò che celebriamo nel Natale, e che la mano di Tiziano, con la sua grande forza espressiva, ci invita a cogliere e conservare nel cuore. 

Annunciazione, Tiziano Vecellio

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