Lorenzo Lotto. Soffermatevi su questo nome scritto in bei caratteri su una didascalia appesa nella Galleria dei Ritratti della Pinacoteca braidense. Di lui, ci sono lì affiancate quattro opere: quattro ritratti, piuttosto ben fatti. Uno, in particolare, dovrebbe stuzzicare l’occhio attento, il “Ritratto di gentiluomo …
Il Bambinello era nato. Era nato anche alla Pinacoteca di Brera. Così come i pastori, secoli e secoli prima, avevano ricevuto l’annuncio da un angelo, così anche la Risolartista sentì una chiamata speciale. Osservando il presepe che aveva costruito con tanta cura sotto il suo …
Quel pomeriggio, la Risolartista aveva voglia di fare un po’ di pratica di “ritrattistica”. Quale posto migliore per avere la giusta ispirazione della Pinacoteca di Brera?!
Quadernetto degli schizzi sotto il braccio, matite e carboncini nello zainetto: in un attimo fu tra le sale braidensi.
Dovete sapere, che questo museo milanese è particolarmente incline a essere territorio di artisti desiderosi di sedersi a disegnare, copiando ora uno, ora l’altro capolavoro. Il fatto che abbia la celebre Accademia come vicina di casa è una prima giustificazione; tuttavia, non è la sola. Gli aspiranti pittori che si mettono a ritrarre le opere devono ringraziare soprattutto l’attuale direttore: il signor James Bradburne. È lui ad aver pensato di costruire una serie di “panche da disegno” molto confortevoli e adatte per creare tutti i capolavori che al visitatore del caso possano passare per la testa. Se gironzolate tra le sale senza guardare soltanto le pareti, noterete queste curiose strutture di legno, quasi sempre occupate da qualcuno nell’atto di creare…
Anche quel giorno, come al solito, tutte le panche erano piene. Che disdetta: la Risolartista voleva proprio fare qualche ritratto, ma non aveva nulla su cui appoggiarsi! Sembrava che avrebbe dovuto rinunciare al suo intento…
Il caso fortuito volle che passasse davanti al Polittico di San Luca del Mantegna. Il caso volle che il protagonista della pala, il suddetto San Luca, avendo finito di scrivere la sua pagina di Vangelo giornaliera, si era alzato dal suo scrittoio per sgranchirsi.
Mi spiego meglio, per coloro che non sono pratici dell’opera. La Pala in questione dovete immaginarvela come una grande impalcatura a due piani, su cui se ne stanno in posa un mucchio di santi curiosi: tutti personaggi legati in qualche modo al monastero padovano di Santa Giustina (committente del dipinto). Ciò che è più importante si trova nel centro, ed è rappresentato ben più grande di tutto il resto, come la “gerarchia delle figure” dello stile Gotico (che il Mantegna in parte seguiva) richiedeva. Ebbene, si tratta di un bellissimo scrittoio di marmo arcobaleno, con tanto di ampolline per l’inchiostro rosso e nero, lucerna, e trono con delfini scolpiti. Normalmente, ci vedete seduto a scrivere San Luca, chino sul Vangelo che sta scrivendo.
… Dico “normalmente”, perché, quel giorno, a quanto pare, al santo faceva male la mano dalla troppa attività! Motivo per cui si era alzato, lasciando vuoto il suo tavolino marmoreo.
La Risolartista, che aveva una certa confidenza con gli abitanti di quella pala (visto che era una delle sue opere preferite), non esitò a chiedere di poter entrare nel dipinto, e approfittare di quello scrittoio così comodo e vuoto.
Il santo, appena appena stupito dalla domanda (era talmente stanco e assorto nei suoi pensieri da non far molto caso), acconsentì subito. Così, l’artista fece il suo ingresso nella Pala di San Luca, immergendosi nel suo fondo oro (altro dettaglio “gotico” tipico) decisamente accecante. Non le era ancora capitato di diventare parte di un’opera così luccicante: prima di riuscire a vedere qualcosa, a causa di tutto quell’oro, bisognava abituare un po’ la vista!
Quando fu di nuovo in grado di distinguere la realtà attorno a lei, si accomodò allo scrittoio arcobaleno, rimanendo però in piedi: il trono era veramente troppo grosso per lei!
Ora che aveva il “supporto” su cui disegnare, mancava il “soggetto” da disegnare. Chi ritrarre? Aveva l’imbarazzo della scelta: due ordini di santi erano lì attorno, in attesa di essere immortalati. La sua decisione ricadde su Santa Giustina: quella che le sembrava più giusto dipingere, senza nulla togliere agli altri personaggi (far indispettire un santo… non sia mai!). Giustificò la cosa, richiamando alla mente il fatto che la pala era stata fatta per il monastero di Santa Giustina; dunque, tale santa aveva la precedenza su tutti gli altri.
Per riconoscerla tra tutte quelle figure, dovete guardare i suoi attributi: il pugnale nel cuore, il libro sotto il braccio, e la palma del martirio nella mano. È quella in basso a destra, insomma.
Dunque, appoggiata al bellissimo scrittoio del San Luca, l’artista si mise d’impegno nel ritrarre il volto della donna celeste, curandosi di includere ogni dettaglio. Mentre disegnava, pensava a quanto il Mantegna fosse stato bravo, nel rappresentare Santa Giustina in modo così naturale, con tanto di prospettiva. Un lavoro considerevole, visto che il soggetto non era certo disponibile di fronte a lui!
Finita l’opera, la osservò soddisfatta. Era venuta proprio bene! Merito del posto d’onore a cui aveva potuto appoggiarsi… anche meglio delle vere panche da disegno. Per ringraziare dell’ospitalità, la Risolartista volle che la santa accettasse il suo ritratto come regalo: l’avrebbe potuto conservare all’interno delle pagine del suo libro. Così, finalmente, avrebbe anche potuto vedere come il Mantegna l’aveva raffigurata; non ci si pensa mai, ma i poveri santi, non avendo specchi a disposizione, non hanno idea di che faccia si ritrovino!
Santa Giustina fu contentissima del dono, e promise di conservarlo per sempre. Il problema, però, era che anche gli altri abitanti della pala, avendo visto la bellissima opera, volevano il loro ritratto! Di conseguenza, nell’uscire dal dipinto, l’artista fu costretta a promettere di tornare presto, per soddisfare tutte quelle nuove importanti commissioni.
Sette metri e mezzo di telero occupavano l’immensa parete della sala braidense. Sette metri e mezzo invitavano il visitatore prima a osservare l’opera da lontano, per poi avvicinarsi ad apprezzare i dettagli. Fu nell’accorciare la distanza tra lei e la tela, che la Risolartista cominciò …
Domenica pomeriggio, tiepido sole novembrino a indorare le vie milanesi, profumo di caldarroste sotto il naso. Un tempo ideale in cui andare a spasso, alla ricerca di colori autunnali. Fu un certo sentore di sottobosco (insolito nel panorama metropolitano di Milano) ad attirare lo spiritello …
Una delle prime cose a cui pensò la Risolartista, appena tornata in terra milanese dalle vacanze, fu il suo campo di lavanda.
Che cosa doveva aspettarsi? Che cosa poteva essergli successo durante tutta quella estate in cui era stata lontana? Prima di partire, l’aveva affidato alle cure amorevoli della “fantesca” del condominio, la Signora Maria, raccomandandole di trattarlo bene. Chissà se si era almeno ricordata di annaffiarlo di tanto in tanto…
Il suddetto campo di lavanda si merita una degna presentazione. Altrimenti, potrebbe essere difficile immaginarselo nel modo corretto.
Il campo di lavanda della Risolartista risaliva a quella primavera, quando lei e la sua vicina di casa appassionata di piante, la Signora Giovanna, avevano deciso di crearlo.
Non pensate a un appezzamento di chissà quanti ettari di superficie; si trattava, sì e no, di mezzo metro quadrato di terra. E, per di più, di terra che riempiva una vasca decisamente circoscritta. Insomma, chi non ha fantasia, potrebbe quasi dire che quel campo di lavanda fosse in realtà una coppia di piantine di lavanda trapiantate alla buona in una vasca del giardino condominiale. Nondimeno, l’artista e la sua amica Giovanna (per fortuna) non mancavano di creatività…
Dunque, da semplici piantine di “Lavanda Officinalis”, si erano trasformate in un campo da fare invidia alle colline provenzali. E, se questa all’inizio era solo una convinzione astratta, con i mesi, il sole, e l’acqua che la Signora Maria si era ricordata di dare, era diventata piuttosto concreta.
Certo, rimaneva un campo di mezzo metro quadrato, ma vantava due cespugli rigogliosi e di notevoli dimensioni. Si poteva dire che l’altezza media di una pianta di lavanda che si rispetti (quasi un metro di lunghezza degli steli) fosse stata più che raggiunta!
Da quest’ultima affermazione, si intuisce come, appena tornata dalle vacanze, la Risolartista avesse trovato una piacevole sorpresa in giardino. Il suo campo di lavanda non era solo vivo e vegeto, ma anche meravigliosamente fiorito e cresciuto. Le gracili piantine che avevano piantato in origine non erano più riconoscibili. Al loro posto, la vasca traboccava di foglioline sottili e vellutate, alternate a lunghissimi gambi argentei. E, poi, al limitare di ognuno di questi, innumerevoli fiorellini violetti facevano da cappelli in forma di spiga, sprigionando il loro caratteristico profumo.
L’invito ad avvicinarsi e gustare quell’aroma era chiaro…
Peccato, che il campo di lavanda fosse al momento occupato! Occupato, e pieno di attività in fermento. Cogliere un fiore era impensabile; al massimo, si poteva tentare di accostare il naso a qualche spiga violetta…
Sempre che non si avesse paura delle api.
Proprio così: il campo di lavanda era diventato luogo abituale di frequentazione delle api del vicinato. Se ancora nessuna aveva deciso di appenderci il suo alveare, era un caso fortunato. Bastava guardare come ronzavano allegre e soddisfatte tra i fiori, per capire quanto si trovassero bene.
Durante l’estate, senza nessun condomino in giro, dato che tutti erano al mare, il campo di lavanda era rimasto molto tranquillo. La Signora Maria (che ricordo essere la fantesca della casa), infatti, era così pittoresca da essere considerata uno spirito campestre quanto le api. Evidentemente, trovarla di tanto in tanto ad annaffiare la vasca non era per loro un problema.
Con tutta quella calma agostana, le signore api avevano potuto colonizzare indisturbate i cespugli di lavanda, rendendolo il loro nuovo posto preferito del giardino.
Si sa che, tra i fiori prediletti da questi insetti a strisce, la lavanda primeggia come pochi. Di conseguenza, avendo a disposizione un campo tranquillo e rigoglioso, è facile capire come non avessero esitato ad appropriarsene.
Viene ora spontanea la domanda riguardo “come” se ne fossero appropriati. Se vi foste trovati nei panni della Risolartista in quel momento, mentre osservava incuriosita il campo per lei inaccessibile, avreste avuto subito la risposta.
La prima cosa che si notava, appena giunti nei pressi dei cespugli, erano delle macchie variopinte che comparivano qua e là tra gli steli. Avvicinandosi, tali macchie si delineavano meglio, rivelandosi essere vestiti e biancheria per api.
Era chiaro che le signore api del vicinato avevano pensato bene di sfruttare il campo di lavanda per stendere il loro bucato!
C’erano magliette, gonnelline, fazzoletti e calzini; poi ancora mutande, pantaloni e camicette. Tutti colorati, tutti a misura di ape, tutti che si rincorrevano sui fili tirati tra i gambi. Ripercorrendo tali fili, si arrivava alle estremità, che erano saldamente affrancate (con tanto di molletta) alla base delle spighe di fiori. In quel modo, i vestiti potevano asciugare al sole, immersi nell’aroma della lavanda. Chissà come dovevano essere profumati alla fine…
Mentre le signore api “casalinghe” si dedicavano al bucato, la squadra delle operaie gironzolava intorno alle estremità delle spighe, facendo incetta di nettare. La loro organizzazione avrebbe fatto invidia a qualsiasi “fabbrichetta” dei dintorni milanesi.
Ognuna era incaricata di raccogliere il polline in una determinata area dei cespugli. Ognuna aveva il suo bel cestino in cui mettere quello che non riusciva a trattenere dopo averlo succhiato. In questo modo, non doveva ritornare chissà quante volte sullo stesso fiore, ma poteva fare un solo viaggio e risparmiare tempo e fatica.
Finito il turno di lavoro, un pulmino “aziendale” (… dell’azienda in cui erano impiegate le suddette operaie) le caricava tutte insieme, con i loro cestini appresso, per portarle all’alveare. Lì, avrebbero cominciato la fase della trasformazione del polline in miele.
Ammirando tutta quell’operosità, la Risolartista non poteva che sperare di avere l’occasione di assaggiare quel capolavoro zuccherino in forma di miele di lavanda che sarebbe venuto fuori.
Una cosa assai curiosa della scenetta, era il fatto che, malgrado la presenza dell’umana a pochi passi, nessun’ape sembrava essersi accorta di lei. In realtà, tutte l’avevano vista, e anche per benino; tuttavia, non avevano ritenuto che fosse necessaria alcun’azione difensiva.
La Risolartista era amica delle api, e da amica veniva da loro trattata. Probabilmente non ci aveva mai fatto troppo caso, ma non era la prima volta che si ritrovava a passare vicino a quella colonia di api. Anzi, seppur inconsapevolmente, le aveva già aiutate molte volte.
Le aveva aiutate nel piantare rosmarino, salvia e lavanda sul suo terrazzino al sesto piano. Le aveva aiutate convincendo il condominio ad accettare la creazione di quel campo di lavanda in giardino, che era stato messo accanto a un ulteriore cespuglio di rosmarino. Tutte queste piantine, infatti, erano tra le varietà predilette dalle care api, e regalavano loro squisiti spuntini quotidiani. Avere qualche fiore in più con cui banchettare era gran cosa, vista la scarsità di verde di loro gradimento nei dintorni metropolitani…
Dunque, per gli insettini a strisce in questione, avere la Risolartista tra loro nel campo di lavanda era solo un piacere! Era merito suo, in fondo, se avevano trovato quel posticino tanto gradevole in cui stare.
Dopo un po’, vedendo che la ragazzina non se ne andava, ma continuava a osservarle curiosa, un’ape si fece coraggio e si rivolse a lei. Le sembrava brutto non dire nulla, e fingere di non notarla neppure; soprattutto visto che ognuna di loro si sentiva implicitamente in debito con quell’artista benefattrice.
Così, la salutò, e la invitò ad avvicinarsi ancora di più, per sentire meglio il profumo della lavanda. La Risolartista rispose allegra, solo minimamente stupita che un’ape si fosse messa a parlare con lei. Da personaggio pittoresco quale era, aveva ormai fatto l’abitudine ad avere a che fare con simili situazioni curiose…
Accogliendo l’invito, infilò il nasino nel cespuglio, respirando a pieni polmoni quell’aroma che le ricordava infinitamente la Provenza. Le ricordava quei campi violetti sterminati, quelle colline ordinate, nell’entroterra della Costa Azzurra, a due passi dal mare. Le ricordava le essenze alla lavanda in boccetta, e quei sacchettini ricamati a mano, ripieni di fiorellini, che le signore del posto vendevano ai turisti.
Fu in quel momento che al suo spirito d’artista venne un’idea.
Voleva fare anche lei, come quelle artigiane provenzali, che riempivano i sacchettini di lavanda, per poi profumarci le stanze di casa e la biancheria. Voleva creare anche lei tanti deliziosi piccoli scrigni di tessuto, per contenere quei chicchi di aroma concentrato dalle tinte violette. Sarebbe stato il modo perfetto per conservare il ricordo del suo campo di lavanda cittadino anche durante l’inverno. Di più: se lo sarebbe ritrovato addosso a ogni cambio di maglietta, presa pulita dall’armadio.
Per poter realizzare tutto ciò, però, aveva bisogno dei fiori. Qualcuna di quelle spighe profumate era essenziale.
Confidando nella benevolenza delle api, che sembravano decisamente in debito con lei per il campo di lavanda, chiese loro di poter raccogliere qualche ciuffo. Queste, sentita l’interessante motivazione artistica della domanda, non seppero dire di no. Anzi, chiesero anche di poter avere uno di quei sacchettini per loro, da mettere nel loro alveare come profumatore per ambienti!
L’unico problemino era che, prima di poter raccogliere la lavanda, era necessario ritirare il bucato. E il bucato, appena steso, non era certo asciutto. Di conseguenza, la raccolta fu rimandata al giorno successivo, permettendo alle api di godersi quel campo di lavanda così rigoglioso ancora per un po’…
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