L’ARTISTA Dovete pensare ad Antonello come a un nodo marinaro. Un punto d’unione di due estremità essenziali, separate da uno specchio d’acqua marina. Nella sua pittura, l’arte del Rinascimento italiano si fonde con il mondo dei Fiamminghi. Le Fiandre affacciate sulla costa oceanica si congiungono, circumnavigando …
L’ARTISTA Vincenzo Foppa nacque a Brescia, intorno al 1430. Poche sono le notizie della sua formazione; il Vasari ci dice che si recò a Padova, dove ebbe l’occasione di imparare dall’arte di Mantegna e di Donatello, che operavano lì in quel periodo. Se il critico Roberto Longhi lo definiva il “padre del …
A sentire così, vi verrebbe da pensare (soprattutto in periodo natalizio) di essere stati invitati a un cenone di Capodanno. Invece, non dovete aspettarvi né lenticchie, né cotechino, ma dessert di mele cotogne, capolavori di zucchero e gelatina, pane e vino rosso a volontà. L’unica cosa che il 31 dicembre ha in comune con il nostro tema è la gente: anche qui, la lista degli invitati arriva a superare la cinquantina, se non addirittura il centinaio.
Ma cominciamo a conoscere l’anfitrione che si nasconde dietro questi festeggiamenti: il signor Paolo Caliari, meglio noto come il “Veronese”. Si tratta di un pittore veneziano del ‘500, qui trasformato in event planner… o meglio (per dirla con il termine dell’epoca) in “scalco”. Che cosa sia questo “scalco”, lo scoprirete tra poco.
Rimaniamo sull’autore, ossia sul Veronese. Per apprezzare le sue leccornie, è bene tenere a mente qualche carattere del suo stile di pittura. I colori accesi, armonici e brillanti, sono la sua passione, assieme alle architetture classicheggianti, ispirate alle Ville venete del Palladio, che rispolvera per ambientare ogni sua opera. L’elemento chiave, però, è il “Cenone”. Celeberrime sono le sue “Cene”, ossia eventi biblici ambientati a tavola, destinati per lo più a refettori conventuali, che si trasformano magicamente in lussuosi banchetti dell’epoca. Quelli che dovevano essere conviti semplici e frugali, diventano ricevimenti con decine e decine di invitati, che immortalano spaccati di vita aristocratica della Venezia cinquecentesca.
Capiti questi pochi cenni, è ora di fare il nostro ingresso nella prima delle due regge palladiane a cui siamo stati invitati (due cenoni in uno… quando vi capita più?!), per assaporare un po’ di cultura rinascimentale cucinata come si deve…
Siamo (“dovremmo essere”) nel mezzo delle “Nozze di Cana”, ai tempi in cui, come narra l’evangelista Giovanni, Gesù compì il suo primo miracolo, trasformando l’acqua in vino. Trattandosi di un tema del Vangelo, subito ci aspetteremmo di vedere Cristo come centro del dipinto, come cuore di tutto il soggetto. Eppure, è quasi difficile identificarlo, vista tutta quella folla di più di 130 persone! Il Veronese ce lo evidenzia con l’aureola dorata (caratteristica in comune con la Madonna, seduta accanto), ma non molto di più.
Le Nozze di Cana, Paolo Veronese
È chiaro che l’intento dell’artista, e l’interesse di noi pubblico, è più rivolto a tutto il resto che sta accadendo intorno. Quelle che dovevano essere le Nozze di Cana, diventano un tipico banchetto rinascimentale da manuale. Tutto è così preciso e dettagliato, che quest’opera potrebbe benissimo servire da illustrazione per uno di quei manuali tanto celebri nel ‘500, che descrivevano minuziosamente come mettere in piedi un servizio impeccabile.
È qui che torna il curioso termine “scalco”, prima accennato. Lo scalco, appunto, era colui che doveva “dirigere” l’intero banchetto, curandosi che ogni portata fosse al suo posto, con presentazione ineccepibile, e in tavola al momento giusto. Era un compito ben più arduo di quanto si possa immaginare: gli event planner di oggi non riuscirebbero a stare dietro neppure alla metà dei preparativi. Infatti, un banchetto rinascimentale fatto come si deve poteva contare anche centinaia di portate, intervallate da spettacoli, musica, danze e giochi. Un evento a tutto tondo insomma. Un “cenone” non facile da dimenticare…
L’intento degli anfitrioni di casa era proprio quello di stupire gli invitati in ogni modo possibile. Dalla scenografia, al cibo. Per farvi un esempio, lo zucchero era una materia prima molto apprezzata, e ricorrente sulle tavole più ricche. Si cercava quello più bianco possibile, e lo si utilizzava per crearci strabilianti costruzioni e composizioni, arricchite con gli ingredienti più strani che si potessero immaginare.
Oltre al nostro scalco, si meritano una menzione anche gli altri due personaggi che entravano in gioco in un banchetto: il trinciante e il coppiere. Il primo era l’addetto ai tagli: tagli di carne e altre pietanze, rigorosamente fatte in aria, con gesti spettacolari. Il secondo, come si intende facilmente, si occupava delle bevande, e lo ritroviamo frequentemente nelle cene del Veronese.
I restanti attori erano i servi a profusione, e di ogni colore di carnagione: potete vederne persino di color cioccolato, che rimarcano la potenza di Venezia nel ‘500, estesa anche sul continente africano. Ancora, non mancano i nani, spesso in funzione di giullari, e bestiole di casa (cani e gatti), che completano il tutto con qualche zuffa ai piedi delle tavole.
Se il Veronese ebbe modo di fare esperienza di persona di questi eventi grandiosi, noi li possiamo oggi rievocare, oltre che con opere simili, anche grazie alle memorie di scalchi del tempo, come il signor Cristoforo di Messisbugo: uno dei più richiesti dell’epoca.
Per ritornare ancora un attimo al nostro banchetto di Cana (…ormai “cena” non è più termine credibile), vi invito a osservare alcuni dettagli curiosi. Il primo è il dessert: le mele cotogne. Come mai, vi chiederete? Ebbene, le mele cotogne erano simbolo di fecondità e di amore coniugale. Si racconta nei miti Greci, che esse furono donate da Gea ai novelli sposi Zeus ed Era, in occasione del loro matrimonio. Ecco un altro particolare (più profano che sacro!) che il Veronese ha ben pensato di aggiungere, giusto per dire di aver rappresentato delle “nozze”.
Guardate, poi, i musicisti al centro: quello in rosso con il violoncello è Tiziano, quello col flauto Jacopo Bassano, mentre il compagno in bianco pare sia proprio il Veronese. Non poteva evitare di essere presente anche lui a una simile festa!
Passiamo ora all’altro cenone. Ve ne parlo, in quanto potreste avere anche voi l’occasione di prenderne parte di persona a breve. Mentre le “Nozze di Cana” si trovano al Louvre, questo qui, ossia la “Cena in casa di Simone”, è alla Pinacoteca di Brera. Ben più accessibile, e (visti anche i tempi di “distanziamenti”) decisamente meno affollato.
Cena in Casa di Simone, Paolo Veronese
L’evento evangelico narrato è il momento in cui la Maddalena si trova nell’atto di cospargere di profumo i piedi di Cristo. Anche in questo caso, percepire il “sacro” è secondario, rispetto all’atmosfera di banchetto che si apprezza immediatamente. Tanto più, visto che Gesù è seduto in un angolino sulla sinistra, mentre il centro del dipinto è occupato da due bei tavoli a L, che lasciano scorgere un retrostante cortile palladiano, con giardino lussureggiante. È chiaro che il Veronese, ancora una volta, abbia preferito immortalare un banchetto veneziano, piuttosto che impegnarsi troppo sul soggetto del Vangelo.
Qui abbiamo una squisita serie di torte e tortine, che appaiono imprigionate in custodie di gelatina trasparente. Non manca il servo africano al centro, proprio accanto a due cagnolini che disturbano un povero gatto. Ancora, c’è vino in abbondanza… anche troppo. Troppo, visto che sembra che un servo ne abbia bevuto così tanto da aver bisogno di aiuto per essere portato via, completamente ubriaco. Dove vedere questa simpatica scenetta? A destra, proprio nell’angolo: noterete l’ingordo trasportato letteralmente via da qualche altro suo compare.
Spero siate soddisfatti di questi banchetti dalle innumerevoli portate… come non ci si potrebbe alzare a pancia piena da un simile cenone?! È già tanto se ci si riesce, ad alzarsi…
Certo, c’è sempre il caso che nulla sia stato di vostro gusto; considerando le tendenze gastronomiche dell’epoca, la cosa è anche probabile. Tuttavia, non è colpa del nostro scalco Veronese, che si è impegnato oltremodo per permetterci di prendere parte a queste feste anche cinquecento anni dopo il loro inizio. È proprio il caso di dirlo, il re degli scalchi, Cristoforo di Messisbugo, sarebbe fiero delle sue impeccabili “Cene”!
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La Cappella Portinari è una delle cappelle annesse alla Basilica di Sant’Eustorgio (a Milano). Tuttavia, non risale affatto all’impianto originario dell’edificio, e neppure alla sua ricostruzione gotica. Volendo collocare la sua comparsa, occorre spingersi fino al XV secolo, in periodo rinascimentale.
Nel corso del Quattrocento, infatti, numerose famiglie nobili milanesi vollero farsi realizzare la loro personale cappella in questa chiesa a cui si sentivano molto legati. Il progetto più importante fu senza dubbio quello del fiorentino Pigello Portinari, direttore della filiale meneghina del banco dei Medici.
Come si può intuire dalla professione, i soldi non gli mancavano; pertanto, non badò a spese nel finanziare questa elegante cappella, coperta da una curiosa cupola ombrelliforme.
La funzione principale doveva essere quella di custodire le reliquie di San Pietro martire: un intento devozionale… ma soprattutto strategico. Facendo da mecenate, il signor Portinari sosteneva i Domenicani, e si assicurava il favore del governo cittadino.
Seconda funzione divenne presto quella di conservare anche le spoglie del suddetto committente.
L’EDIFICIO
La cappella ha una forma cubica, coperta da una cupola a ombrello, con pennacchi emisferici e tamburo. Si tratta di un emblematico esempio di esordio del linguaggio architettonico rinascimentale. Il nome dell’architetto non è esattamente certo: forse Guiniforte Solari, forse il Filarete… chissà?!
Ciò che conta, sono gli affreschi meravigliosi di Vincenzo Foppa…
GLI AFFRESCHI
Il ciclo di affreschi della cappella fu eseguito tra il 1462 e il 1468, da Vincenzo Foppa, noto pittore rinascimentale della Milano del tempo.
Queste sono le scene principali:
L’Annunciazione
L’Assunzione della Vergine
Il Miracolo del piede risanato: miracolo che svelò le doti di taumaturgo di San Pietro.
Il Martirio di San Pietro martire: egli, già colpito a morte, affermò la propria fede scrivendo con il sangue “credo”.
Il Miracolo della nube: San Pietro fece comparire una nuvola di pioggia per dare refrigerio ai fedeli che lo stavano ascoltando. La scena avvenne proprio davanti alla Basilica di Sant’Eustorgio.
Il Miracolo della falsa Madonna: San Pietro svelò l’inganno di un eretico cataro (che aveva convinto i fedeli a venerare una Madonna falsa), facendole comparire in testa le corna del demonio.
Il miracolo della nubeIl martirio di San PietroIl miracolo della Madonna con le CornaIl miracolo del piede risanato
Le motivazioni dei soggetti scelti e dello stile pittorico sono da collegare ai Domenicani, abitanti della chiesa. Notate la prevalenza delle storie legate alla Madonna: i frati le erano molto devoti. Ancora, troviamo tre episodi della vita di San Pietro martire, membro stesso dell’Ordine. Per finire, altro carattere domenicano è la semplicità della narrazione, e la grande attenzione didascalica che il pittore dovette seguire.
CHI ERA SAN PIETRO MARTIRE?
Dopo aver sentito ripetuto innumerevoli volte il suo nome, viene spontaneo chiedersi chi fosse. Ecco, dunque, qualche breve cenno illuminante.
Pietro da Verona (1205-1252) fu un predicatore domenicano, che è ricordato soprattutto per la sua lotta contro l’eresia dei Catari.
Nel 1232, appunto, fu mandato in Lombardia per combattere gli eretici, stabilendosi nel convento di Sant’Eustorgio.
Alcuni sicari, però, lo assassinarono nel 1252, nella foresta di Seveso, evidentemente contrari alla sua rettitudine e predicazione. Si racconta che, appena prima di morire, scrisse con il suo stesso sangue la parola “credo”, segnando per sempre la sua fede genuina.