Tag: arte

I colori della mia terra. Le grandi tele di Sally Gabori ricordano la storia degli Aborigeni australiani

I colori della mia terra. Le grandi tele di Sally Gabori ricordano la storia degli Aborigeni australiani

Una storia di natura, duro allontanamento, e ritorno a casa  Per comprendere il significato delle opere astratte di Sally Gabori, occorre prima fare un viaggio lontano, tanto nel tempo quanto in termini geografici. Occorre risalire circa al 1924, posizionando la propria mente sull’isola Bentinck, nel 

La nuova Accademia Carrara. Una delizia di colori e Rinascimento italiano per gli occhi

La nuova Accademia Carrara. Una delizia di colori e Rinascimento italiano per gli occhi

Un nuovo abito variopinto per la Capitale della Cultura Il 2023 è un anno importante per Bergamo, come per Brescia. E’ l’anno in cui, in nome delle difficoltà attraversate (e superate) durante la Pandemia, le due città sono state scelte come Capitali della Cultura. I 

(In)utili incontri? Un giro ad (Un)fair

(In)utili incontri? Un giro ad (Un)fair

“Come tutte le fiere abbiamo obiettivi che si traducono in target e numeri, ma quello che vogliamo vedere nei prossimi giorni sono galleristi e collezionisti felici.”

Emanuela Porcu e Laura Gabellotto

Un contro-concetto di fiera dell’arte

Con queste parole, le direttrici Emanuela Porcu e Laura Gabellotto inaugurano la seconda edizione di questa giovane fiera. Una fiera che, già dal titolo, promette di voler essere diversa dal concetto tradizionale. Se si è pratici del settore, si collegherà subito il termine “fiera d’arte contemporanea” a quel groviglio di relazioni commerciali e speculative che hanno ben poco di artistico. Si va in fiera a vedere i nuovi trend del mercato. Si va in fiera con l’atteggiamento di cani da tartufo che devono individuare i possibili affari. Ciò che le gallerie presentano sarà presto (se non lo è già) il benchmark a cui guardare per valutare gli artisti emergenti. Dunque: occhi aperti, quadernetto degli appunti alla mano, e portafogli pronto a scattare davanti a una tela di valore

… Che valore, poi? Artistico, storico, oppure semplicemente economico? La realtà delle fiere d’arte e dei loro partecipanti è troppo aggrovigliata per essere definita. Il nero su bianco, qui, non esiste. 

Tuttavia, ad (Un)fair si respira, o si vorrebbe far respirare, un’aria diversa. L’idea che vi sta dietro è di un ritorno alla genuinità delle relazioni fieristiche. Un ritorno al piacere di passeggiare tra uno stand e l’altro, scambiando due parole gioviali con i galleristi. Galleristi sorridenti, aperti, desiderosi più di far conoscere, che di fare profitto. E, in effetti, il catalogo di questa edizione 2023 brulica di giovani artisti, magari autodidatti, che non sono lì solo per vendere, ma anche per divertirsi. Dunque, non c’è che da fare nuove conoscenze…

Aria di primavera con Gordon Hopkins

Galleria belga che lo rappresenta, autore di mezza età dal passato a stelle e strisce. Parte dalla quotidianità: dalle fruttiere delle nostre cucine, oppure dal fogliame del pacchetto accanto a casa, e poi tende al colore. Colore sgargiante, che modella forme semplici e un po’ infantili, che riducono il reale in giocoso. C’è un accenno di Fauvisme nel suo fogliame irriverente nei confronti dell’aspetto naturale: emozioni sgargianti si riflettono in piante d’appartamento banali quanto irreali.  

Guardando le sue tele, sembra di ritrovare l’atmosfera di sottile allegria che i primi frutti della primavera portano sulla tavola. 

G. Hopkins

Je Shen e il Pointillisme dei fiori di ciliegio

I suoi paesaggi orientaleggianti tradiscono subito le sue origini Cinesi. Ma la tecnica è diversa. Dopo i primi studi in patria, l’artista si è spostato in Occidente, dove è rimasto affascinato dal Pointillisme di George Seurat. Una passione, quella per la composizione delle figure a puntini, che ha poi riportato nella sua terra. Fonte costante di ispirazione sono, infatti, gli alberi di ciliegio, laggiù pressoché onnipresenti. Partendo dalle loro chiome in fiore, rese con una moltitudine di gocce di acrilico perlato a rilievo, Je Shen compone i suoi sogni. E così, da barchette fluttuanti prorompono fuori i ciliegi, mentre un sole rosato si spegne all’orizzonte. Un Pointillisme contemporaneo che allieta la vista. 

J. Shen

Le rose dalle spine di china di Jean-François Debognie

Se il precedente artista dall’Oriente si è spostato all’Occidente, con Debognie si ha l’esatto contrario. Nato a Bruxelles, oggi residente a Singapore. Di Europeo, oltre al cognome, rimane la sua passione per il “Giallo di Napoli” e la “Terra di Siena bruciata”: due colori dalle origini spiccatamente mediterranee. Queste tinte, però, sono adoperate per delineare paesaggi che sembrano provenire dalle antiche aree rurali della Cina. In lontananza si scorgono montagne basse, che riflettono il probabile spunto delle stampe cinesi e giapponesi. Su questo paesaggio, nebbioso quanto tempestoso, spiccano in primo piano brillanti fiori a contrasto. Rose, probabilmente. Rose dai lunghi e flessuosi gambi, punteggiati di spine che paiono piuttosto schizzi di china. Forse che in Oriente le rose perdono le spine?

J. F. Debongnie

Dal digitale alla tela, il passo è breve per Giorgio Vallorani

L’ultimo incontro della fiera è dedicato a un personaggio italiano, nato illustratore Disney, oggi artista che fa volare le idee fuori dallo schermo. Proprio così: le sue opere cominciano in digitale, per poi concretizzarsi sulla tela. Giorgio Vallorani parte da un disegno pensato sull’iPad, rielaborato su Photoshop, e poi stampato su tele di grandi dimensione. A quel punto, passa ai pennelli (quelli veri). E colori e forme geometriche definiscono una realtà senza tempo, che immortala scene di vita quotidiana, che poi tanto quotidiana non è più…

Giorgio Vallorani 20 21 - Exibart.service
G. Vallorani
Cent’anni dopo la scoperta di Spina etrusca

Cent’anni dopo la scoperta di Spina etrusca

Una scoperta archeologica da non dimenticare 1922 – 2022. Cent’anni sono ormai trascorsi da quell’inaspettato mucchio di “terrecotte e bronzi di magnifica fattura greca”, che emersero durante gli scavi di bonifica delle valli di Comacchio. Da allora, gli archeologi non si sono più arrestati, continuando 

Al cospetto della Pietà Rondanini

Al cospetto della Pietà Rondanini

Dal maggio 2015, anno ricordato dai milanesi come quello della grande Esposizione Universale dedicata al mangiare, nel Castello Sforzesco c’è un undicesimo museo ad aggiungersi al restante ricco repertorio. 

Si tratta del Museo della Pietà Rondanini, finalmente esposta dignitosamente in tutto il suo fascino di non-finito. 

Ci sono voluti anni (quasi sessanta), prima che il visitatore medio (milanese o straniero che sia) potesse ammirarla interamente: tanto davanti, quanto dietro. 

… Che bisogno c’era? Che necessità impellente di cambiamento poteva essere ritrovata nel precedente allestimento? Era davvero così inadatto? Inadatto, no; no, di certo. Ma limitante sì. E avere limiti nel fare conoscenza con l’ultima opera scalfita dallo scalpello di Michelangelo è qualcosa che può molto inficiare sulla nostra comprensione…

È inutile dire che la Pietà Rondanini sia un’opera non facile da capire e da apprezzare. Se la si guarda superficialmente, si rischia di seguire il consiglio che Virgilio diede a Dante davanti agli Ignavi peccatori, ossia di non curarci della scultura, ma guardare e passare oltre. Ci sono così tante altre cose da vedere nel Castello, che potremmo ritenere sufficiente uno sguardo veloce, risparmiando tempo prezioso per altro. Eppure, non ci sarebbe  perdita di valore più grande in cui incorrere. La sosta davanti alla Pietà si merita tutta la nostra attenzione. 

Fino al 2015, peccare di superficialità sarebbe stato ammesso: l’opera era esposta in una nicchia, all’interno della sala degli Scarlioni, assieme a molte altre compagne più imponenti e, sopratutto, finite. Leggendo il nome di Michelangelo, i visitatori non particolarmente eruditi, né curiosi, offrivano una rapida occhiata a quell’ambiguo blocco di marmo, e niente di più. Chissà che non si domandassero persino se fosse davvero stato il grande Michelangelo ad abbozzare quella scultura…

In aggiunta, la nicchia impediva di vedere il retro del complesso, limitando decisamente la già poca attenzione che il pubblico era solito concedergli. 

La Pietà michelangiolesca, dopo tutto, aveva avuto una storia travagliata, complessa e misteriosa, al contempo. Nulla che aiutasse a regalarle visibilità e comprensione presso i Milanesi, impegnati in ben altre occupazioni. Potremmo dire che faceva fatica a raccontarsi da sé: aveva bisogno di un ambiente che le facesse onore, e le permettesse di far sentire la sua voce. Con una spintarella, sarebbe certo riuscita ad affascinare visitatori provenienti da ogni dove; in quanto a biografia, non aveva simili di cui fossero già state narrate le gesta.

Prima di collocarci con il pensiero dinnanzi alla Pietà nel suo rinnovato allestimento, è proprio alla sua storia che è bene guardare. Quel poco che se ne sa, infatti, dà un gusto speciale alla materia marmorea. 

Siamo negli anni ’50 del Cinquecento, quando Michelangelo prese in mano (chissà come mai… forse per passatempo, o per farne un monumento per il suo sepolcro) un primo blocco di marmo apuano. A giudicare da quella che è oggi la Pietà Bandini (attenzione: non la Rondanini!), non doveva trattarsi del miglior blocco marmoreo per derivarne una scultura. Infatti, la pietra era così dura, da creare notevoli impedimenti anche per lo scalpello esperto (sebbene anziano) di Michelangelo. Lo era a tal punto, da spingerlo, in uno scoppio d’ira, a fare a pezzi l’opera inconclusa. Pezzi che, successivamente, furono “raccolti” dal banchiere fiorentino Francesco Bandini, il quale incaricò un allievo dell’artista di rimettere insieme le parti e terminare il gruppo. Da qui capirete che l’odierna Pietà Bandini non è completamente michelangiolesca… a voi le conclusioni sui pregi e sui difetti.

A questo punto, giunge il momento di passare alla Pietà in discussione, ossia alla Rondanini. Anch’essa ebbe la sua primissima genesi nello stesso decennio del 1500, e fu scolpita in un secondo blocco di marmo ancora una volta apuano (ecco il legame con la sorella). L’anziano maestro, ormai ottantenne, doveva aver voluto fare un secondo tentativo…

Né dell’intento, né della storia di quest’opera, si hanno molti dettagli, come già annunciato. Ci sono alcuni disegni, che testimoniano come, tra gli anni cinquanta e sessanta, fino alla morte (1564), Michelangelo abbia cambiato idea sulla composizione, mutando il progetto originale in un’insolita posizione che vedeva la Madonna in piedi, intenta a reggere un Cristo altrettanto eretto. Rispetto alle massicce figure con cui aveva iniziato (se ne può vedere un rimasuglio nel braccio isolato a sinistra della scultura), le ultime risultanti divennero molto più sottili… quasi flessibili come fuscelli vegetali. I motivi del cambio sono ignoti. Sappiamo che l’artista vi lavorò persino negli ultimi giorni di vita, e che questa inconclusa Pietà fu inventariata nel suo studio, all’indomani delle esequie. Nel 1561, quando ancora era in lavorazione, egli la intestò al suo servitore; il perché è mistero. 

Per molto tempo, poi, non se ne seppe più nulla… finché non riemerse in casa del marchese Giuseppe Rondinini (morto nel 1801), come le letterine incise sulla scultura rimarcano. Dopo essere rimasta nel suo palazzo per anni, esposta come scultura da giardino, la Pietà è stata acquistata dal Comune di Milano nel 1956, evitando di cadere in mani straniere. 

Fine della storia; questo vi basti per guardarla d’ora in poi con un occhio diverso…

Avvolta nel mistero della sua genesi e metamorfosi mai portata a termine, la Pietà Rondanini dovrebbe lasciare senza parole qualsivoglia visitatore. Finalmente, nella sua nuova dimora dell’ex Ospedale Spagnolo, completamente ristrutturato per ospitarla, è possibile apprezzare nella sua completezza il suo fascino unico. Pensate a dove si trova oggi: in un luogo che ricoverò gli ammalati di peste durante la famosa epidemia di San Carlo. Non ci potrebbe essere luogo più sensibilmente vicino al significato di sofferenza e compassione che il soggetto vuole esprimere. 

Il pregio maggiore, però, è l’entrare al suo cospetto cogliendola di spalle, mentre la Madonna ci rivolge quel suo mantello solo abbozzato, che cela in sé l’idea mai completamente espressa dell’anziano Michelangelo. Girando attorno alla scultura, si può davvero cogliere l’unicità della mente del maestro, capace di estrarre la vita da un freddo blocco di marmo. È solo nella Pietà Rondanini che si riflettono i suoi ultimi pensieri di artista tormentato, che, a dir suo, aveva fallito nell’ottenere l’assoluta perfezione. Ma è anche in essa che, a dispetto delle sue insoddisfazioni, emerge il genio di chi, fin dal primo abbozzo scalpellato, già vedeva tutta l’opera conclusa. 

Il “bello e buono” dei numeri – “Numerismi” in mostra a Banca Cesare Ponti

Il “bello e buono” dei numeri – “Numerismi” in mostra a Banca Cesare Ponti

Per qualche mese ancora, tutti coloro che temono i numeri fin dalle prime ore di matematica a scuola, hanno un’occasione per riscattarsi. E il posto in cui essere testimoni di questa rivalutazione del mondo numerico è inaspettato quanto una simile premessa. Si tratta di una 

La Chiesa di Sant’Antonio Abate – un tesoro per chi ha pazienza

La Chiesa di Sant’Antonio Abate – un tesoro per chi ha pazienza

C’è una chiesa, a Milano, che per essere visitata richiede tanta pazienza. Moltissima.  Richiede pazienza nel trovare l’orario giusto a cui trovarla aperta: solo tre giorni a settimana (lunedì, martedì e mercoledì), e con orari curiosamente variabili. A seconda dell’estro dei volontari che, con altrettanta pazienza, si offrono di 

Pompeo Batoni: il “nuovo Raffaello” del Classicismo romano

Pompeo Batoni: il “nuovo Raffaello” del Classicismo romano

Entrando nella sala XXXIV della Pinacoteca di Brera, si può avere un’idea di quelle che dovessero essere le tendenze artistiche della città nel pieno Settecento. Era l’epoca dell’Illuminismo, della riscoperta del passato greco e latino con il Neoclassicismo, del noto “Grand Tour”, intrapreso dai rampolli di tutta Europa. Milano, a quei tempi, si trovava a essere un centro cosmopolita almeno quanto le altre capitali del Mezzogiorno, quali Napoli e Roma. 

Tuttavia, parlando di artisti, era al contempo sfornita di talenti autoctoni, costretta a importarne da altri luoghi d’Italia. Tra questi, compare il nome di Pompeo Batoni, la cui “Madonna con il Bambino e i Santi Giuseppe e Zaccaria, Elisabetta e Giovannino” è visibile tutt’oggi nella citata sala braidense.

Viene subito da chiedersi che fossi costui. Furono tanti gli artisti del Settecento, raccolti sotto il comune denominatore del “Grand Tour” o del Classicismo romano, da far passare i singoli nomi (e non solo) in secondo piano. Nondimeno, una volta identificato, verrà naturale ricordarlo come una sorta di “nuovo Raffaello” settecentesco.

Non a caso, il Batoni, di origini lucchesi, appena trasferito a Roma cominciò a studiare sulle opere di Raffaello e di Annibale Carracci. Dal primo apprese i colorismi vivi e la dolcezza delle espressioni; dall’altro le composizioni delle scene e l’animo dei movimenti. 

La sua specialità, però, non fu subito legata ai temi religiosi (come era per Raffaello), quanto piuttosto ai ritratti. Ritratti di quei giovani aristocratici inglesi, che giungevano a Roma per una delle tappe più importanti del loro viaggio in Italia. 

Vedendolo attivo e prolifico nel Lazio, ai frati girolamini della chiesa dei santi Cosimo e Damiano (un tempo vicino alla Scala) venne l’idea di chiamarlo su a Milano, commissionandogli una pala per loro. E il Batoni non fu l’unico a essere invitato in Lombardia: con lui, giunsero anche altri celebri nomi, quali Bellotto, Bottani, Tiepolo e Subleyras. In breve, il Classicismo romano fu esportato nella città milanese, lasciando testimonianze pittoriche di altissimo livello. A Brera, spiccano la pala di Batoni, realizzata proprio per i girolamini, e la compagna di Bottani, che era in origine destinata ad adornare lo stesso edificio di culto. 

Se si osserva quella Madonna scaturita dal pennello del lucchese, avendo in mente (almeno un po’!) lo stile di Raffaello, lo si può ritrovare in quei colori particolarmente caldi e pastello, come in quelle espressioni, delicate all’inverosimile. Per non parlare, poi, del gruppo di angioletti racchiusi in una “mandorla” alla sommità: le loro pose riprendono molto l’originale raffaellita. Considerando che lo stesso Batoni si dichiarava speranzoso di diventare al pari del “divino Raffaello”, pittore da lui particolarmente amato, il legame tra i due appare ancora più lampante. Quest’opera specifica, poi, è sicuramente quella che più riprende il maestro rinascimentale; motivo in più per essere grati a chi la volle in Pinacoteca. 

… E chi fu, dunque, a volerla lì, a Brera? Il soggetto in questione era Carlo Bianconi, segretario dell’Accademia di Brera a fine Settecento. Egli aveva capito come, ormai, i pittori romani come Batoni e gli altri suoi colleghi erano diventati un nuovo modello di stile da seguire. Si faceva, dunque, necessario avere qualche esemplare delle loro opere a disposizione degli studenti milanesi, perché potessero apprendere quel Neoclassicismo in piena diffusione. E così, fin dal 1797, anno di soppressione dell’ordine dei girolamini, cominciò a promuovere il trasferimento della pala di Batoni, riuscendo presto nel suoi intento. Grazie a questa volontà lungimirante di arricchire la collezione braidense con il dipinto di Batoni più raffaellesco, si può davvero apprezzarne il suo lato di “nuovo Raffaello”, quale, se lo credete, potreste oggi definirlo davvero. 

Canova e Perugia – un legame scolpito nel gesso

Canova e Perugia – un legame scolpito nel gesso

Il nome di Antonio Canova richiama subito alla mente un universo di Classicità greca scolpito nel marmo bianco, con una delicatezza ineffabile. Lo scultore, principale esponente del Neoclassicismo italiano in scultura, è noto per i suoi capolavori ottocenteschi che fanno rivivere ancora oggi lo spirito