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I colori della mia terra. Le grandi tele di Sally Gabori ricordano la storia degli Aborigeni australiani

Una storia di natura, duro allontanamento, e ritorno a casa 

Per comprendere il significato delle opere astratte di Sally Gabori, occorre prima fare un viaggio lontano, tanto nel tempo quanto in termini geografici. Occorre risalire circa al 1924, posizionando la propria mente sull’isola Bentinck, nel cuore del Golfo di Carpentaria, a nord dell’Australia. In quel luogo remoto e difficilmente accessibile all’immaginario occidentale, vivevano gli Aborigeni, passando la loro esistenza nella pace e nell’armonia di uno stretto rapporto con la natura. Qualcosa di altrettanto distante dalla nostra quotidiana cittadina. Sally, come i suoi antenati prima di lei, passò i primi vent’anni di vita affaccendata a intessere tessuti e preparare trappole per i pesci lagunari. A turbare la sua esistenza, solo i capricci del tempo e del cielo. Un cielo unico, quello australiano, capace di generare fenomeni atmosferici improvvisi e inaspettati. Pensate alle “morning glories”: strisce di nubi compatte, lunghissime, che interrompono i raggi del sole come fossero fiumi in mezzo alla terra. Cose che solo a nord dell’Australia (e sulle tele di Sally) si possono vedere. 

Tutto questo incanto naturale, improvvisamente, si infranse. Era il 1948: anno in cui, approfittando di un violento ciclone che aveva colpito l’isola dei Kayardilt (il popolo aborigeno di appartenenza dell’artista), i missionari presbiteriani portarono a termine con successo (discutibile) la missione civilizzatrice degli Aborigeni. Da allora, per quasi sessant’anni, Sally Gabori e la sua comunità furono strappati dalla loro terra, costretti a vivere in modo occidentale a Mornington Land. Le famiglie furono separate, la loro lingua madre proibita. E la frattura culturale e affettiva di questo popolo può solo essere (lontanamente) immaginata.

Una pittura che racconta la sua terra e la sua famiglia

Mentre si trovava a Mornington, all’età di ormai circa ottant’anni, Sally scoprì la pittura. Pratica sconosciuta agli Aborigeni, legati a forme di arte decisamente diverse dai canoni occidentali. Tale pittura divenne presto un medium per tornare a casa, evocando nei colori e nei movimenti morbidamente casuali i fenomeni atmosferici del Golfo australiano. Ogni tela, identificata con un nome in lingua Kayardilt, ricorda uno dei suoi luoghi di origine. C’è la laguna di acqua dolce in cui pescava da bambina; c’è la terra di origine del padre, Thundi, e non può mancare la sua isola: il posto a cui più si sentiva legata. 

In ogni pennellata, non si esprimono solo i luoghi, ma anche i membri della sua famiglia che la accompagnarono in quei primi, felici, anni di vita. Nei gialli e negli aranci sgargianti Sally ha espresso tutta la gioia che provava nel sentirsi riunita (anche se con il pensiero) alla sua terra e ai suoi cari. Nei bianchi, nei grigi, e nei neri, invece, potete percepire i capricci del cielo, che si spingono fino agli uragani più neri. Anche quelli, però, facevano parte della sua casa.

Un lieto fine celebrato nella mostra della Fondation Cartier

La storia di Sally Gabori può essere letta come una fiaba. Come in tutte le fiabe, dopo i travagli, anche per lei arrivò il lieto fine. Negli anni ’90, dopo anni di confino, il popolo dei Kayardilt fece ritorno a casa. Il governo australiano, infatti, concesse loro di stare nuovamente sull’isola del Golfo da cui erano stati portati via, anni e anni prima. La gioia dell’artista si può solo immaginare guardando ai colori di cui sono intrise le sue opere. 

Ed ecco che, come la Fondation Cartier che ha organizzato questa mostra personale ha voluto sottolineare, l’arte di Sally Gabori assume una valenza sociale fortissima. Queste tele riflettono sì dei luoghi geografici, ma ancor più esprimono la riunificazione con la sua gente e la sua terra, riconquistata dopo anni di presunta civilizzazione. Le tinte sgargianti servano a interrogarci su quale sia il vero bene per popoli diversi da noi occidentali. 

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