Mese: Gennaio 2022

La pittura a tempera: quando i tuorli d’uovo non servivano solo a fare lo zabaione

La pittura a tempera: quando i tuorli d’uovo non servivano solo a fare lo zabaione

Fino all’invenzione della pittura a olio, avvenuta per mano dei Fiamminghi, nelle terre nordiche quattrocentesche, la tecnica più usata era la tempera. Tempera… all’uovo. Da secoli, le preparazioni oleose erano celebri per il loro essere tanto vantaggiose, quanto ben scomode da utilizzare. Pensate che, per far 

Uno schizzo anche troppo ben fatto: il Cartone della Scuola di Atene

Uno schizzo anche troppo ben fatto: il Cartone della Scuola di Atene

Fin dal 1610 (con una breve pausa di 20 anni), la veneranda Pinacoteca Ambrosiana di Milano ospita un schizzo molto speciale. Normalmente, ci si aspetterebbe che gli schizzi, in quanto disegni preparatori, siano qualcosa di frettoloso e poco definito. Oggi, questa idea è ancor più 

Antonello da Messina

Antonello da Messina

L’ARTISTA

Dovete pensare ad Antonello come a un nodo marinaro. Un punto d’unione di due estremità essenziali, separate da uno specchio d’acqua marina. Nella sua pittura, l’arte del Rinascimento italiano si fonde con il mondo dei Fiamminghi. Le Fiandre affacciate sulla costa oceanica si congiungono, circumnavigando il continente, al cuore del Mediterraneo e alla Laguna veneta. E possiamo anche dire esattamente dove avvenne questo incontro: parliamo di un porto siciliano. Il porto di Messina…

Antonio de Antonio (avevano poca fantasia in famiglia), figlio di Giovanni de Antonio, nacque a Messina attorno al 1430. Fino al secolo scorso, pochissimo si sapeva su di lui. Poi, nel 1925, si ritrovò un antico documento cinquecentesco, che ci riporta la situazione artistica napoletana del tempo. Da lì apprendiamo che Antonello fu uno dei migliori allievi di un tale Colantonio: artista che aveva bottega a Napoli, e che faceva uso della pittura a olio. Tale tecnica, anche se oggi pare scontata, allora non lo era affatto. Fu inventata dai Fiamminghi, che furono i primi a capire che, se si mescolavano i pigmenti con olio di lino o di papavero, si poteva ottenere un effetto di brillantezza impareggiabile, senza rinunciare a ridotti tempi di asciugatura. 

Colantonio era uno dei pochi maestri d’Italia che aveva avuto l’occasione di scoprire questa nuova tecnica, osservandola presso la corte napoletana di Renato d’Angiò, che era grande appassionato di pittura. Fu una fortuna, per il giovane Antonello, trovarsi a bottega proprio presso questo artista dal carattere tipicamente fiammingo. Dopo un primo periodo di formazione in terra siciliana, tra Messina e Palermo, lì, a Napoli, imparò tutto ciò che c’era da sapere sui lavori provenienti dal Nord Europa. Un contributo notevole alla conoscenza dei Fiamminghi venne certo dal suddetto re della città, che pareva avesse una ricchissima collezione di opere delle Fiandre. Tecnica a olio, attenzione ai dettagli, passione per i paesaggi e i piccoli oggetti quotidiani: questi gli elementi che il messinese fece propri da quell’arte tanto particolare. Senza dimenticare, poi, la ritrattistica. Ciò per cui egli divenne più celebre erano quei volti tanto umani e introspettivi, immortalati di tre quarti, da vicino, che raccontavano molto dei rispettivi proprietari. 

La formazione di Antonello, però, non si fermò nel Mezzogiorno, ma proseguì risalendo la penisola fino a nord, con l’arrivo al porto di Venezia. Il nodo marinaro che metaforicamente abbiamo citato si completa qui, quando le navi fiamminghe, già accostate a quelle napoletane e siciliane, incontrano anche le acque della Serenissima. 

La Laguna e i suoi dintorni conferirono al pittore ciò che ancora gli mancava: l’abilità nel giocare con lo spazio e la prospettiva. Le atmosfere di immobile intellettualismo e rigore geometrico di Piero della Francesca ebbero il loro effetto sulla sua mano, che divenne precisa quanto il collega sansepolcrino. 

Se vogliamo essere onesti, dobbiamo anche dire che il contributo antonelliano all’arte locale fu tale da superare, forse, ciò che egli conquistò per sé. Se tanto aveva imparato dai Veneziani, tanto lasciò ai posteri, che ripresero la sua pittura tonale, rendendola il cuore del loro Rinascimento. 

Nel corso della sua vita, malgrado i viaggi attorno alla penisola, non si dimenticò mai della sua terra natale. Messina, con le sue basse colline imbiondite, e il suo mare aperto in direzione delle Eolie, compare spesso negli sfondi dei suoi dipinti. Particolarissimo, per non dire unico, è il suo applicare lo stile fiammingo ai paesaggi della sua amata Sicilia, che ci sono restituiti nei loro più piccoli dettagli. 

Dopo Venezia, i passi di Antonello lasciarono impronte a Roma, poi in Toscana, e nelle Marche. In quest’ultima terra ebbe certo modo di approfondire la sua conoscenza di Piero della Francesca, assorbendone ancor più la sapiente prospettiva. 

Malgrado i tentativi di invito (tutti vani) a Milano da parte di Galeazzo Maria Sforza, che era rimasto affascinato dai suoi ritratti, il pittore preferì sempre girovagare nel Mezzogiorno, stabilendosi infine nella sua Messina. Lì morì nel 1479, senza mai riuscire a creare una sua scuola, ma lasciando un’eredità artistica infinita a tutti coloro che lo avrebbero succeduto…

LA SUA PITTURA

La metafora del nodo marinaro che unisce la costa fiamminga ai porti del Mediterraneo italiano torna buona anche qui. La pittura di Antonello è il compendio perfetto di ciò che inventarono i maestri su al nord, e dei guadagni del Rinascimento di inizio ‘400

Partiamo dalle Fiandre, e dalle innovazioni che circolavano in quel periodo in quelle terre. La loro più grande scoperta fu senza dubbio la pittura a olio, tanto rapida quanto brillante nei colori. Il nostro artista la scoprì a Napoli, pensando bene di mescolarla, dapprima, con la tempera tradizionale. Immaginatevi i primi strati di tempera all’uovo, e le rifiniture successive caratterizzate da impeccabili effetti luministici e trasparenze. Tutto merito dell’olio di lino, che permetteva di descrivere la realtà nei suoi minimi dettagli e giochi di luce.

E sono proprio i dettagli e la luce, il secondo lascito dei Fiamminghi. Tutti quegli oggetti che notate accanto ai protagonisti delle tele antonelliane erano ispirati a loro. Lo stesso vale per quei minuscoli passanti che si affaccendano negli sfondi, oppure per quel curioso bestiario, che ogni tanto appare a riempire i bordi delle scene. E vale ancora per la resa luministica, tanto pura e democratica, che dà pari importanza a figure umane e inanimate. 

L’influenza continuava nell’ambito della ritrattistica. La posa di tre quarti, da un punto di vista molto ravvicinato, era tipicamente nordica. Ne risultavano effigi immensamente espressive, vive, enigmatiche, che esortano noi osservatori ad accennare il primo saluto. 

Con i cari pittori delle Fiandre, abbiamo finito.

Approdiamo nei porti mediterranei, per ritrovare gli altri insegnamenti che Antonello riuscì a integrare nelle sue opere. Il grande nome che si rispecchia nell’applicazione sapiente della prospettiva è Piero della Francesca. Durante il soggiorno marchigiano, i suoi rigori geometrici corressero quelle imperfezioni spaziali che caratterizzavano i nordici. Ed ecco che le tele toccarono davvero il culmine della perfezione…

L’ultima nota sulla pittura antonelliana sono le ambientazioni. Da buon italiano, radicato nella sua terra fin nel profondo, anche lui non tradì mai la sua città natale. Ogni volta che scorgete un paesaggio, in qualche modo ci ritroverete Messina. Messina con le sue collinette dolci; Messina con il suo popolino affaccendato; Messina con il suo specchio d’acqua mediterranea che si disperde all’orizzonte.

LE OPERE

LA VERGINE LEGGENTE

Lo sguardo enigmatico della Vergine pensosa carpisce subito l’osservatore. Silenziosa, distoglie per un attimo l’attenzione dal libro che reca tra le mani, per rivolgersi al nuovo venuto. Sarà l’Arcangelo Gabriele, giunto per dare il suo annuncio? Chissà…

Misterioso l’autore, e misteriosa è anche l’opera in questione. Non sappiamo con certezza quando fu realizzata; a giudicare dallo stile, ancora piuttosto acerbo, gli esperti la riconducono al suo periodo giovanile, trascorso tra Napoli e la Sicilia. 1460, come dice la didascalia.

Per comprenderlo al meglio, occorre ricordare ciò che la mano messinese assorbì in quegli anni di apprendimento. Tra il 1445 e il 1455, Antonello lasciò la sua terra natia, per giungere nella più popolosa metropoli del tempo: Napoli. Laggiù, erano tempi in cui la pittura fiamminga era molto di moda, giunta con quei capolavori che il re d’Angiò vantava nella sua ricca collezione personale. Il ritratto di tre quarti, ravvicinato, e immensamente introspettivo, è tutto ripreso dal nord. Qui ne vedete un chiaro esempio, declinato in una Madonna pensosa, che sa ciò che le aspetta, e si sottomette alla volontà divina.

Anche la tecnica è molto curiosa: un misto di tempera e pittura a olio, che permise al maestro di curare anche i piccoli dettagli e le sfumature luministiche. Su tutto domina quel velo bianco, simbolo matrimoniale, che le ricade sulle spalle in modo molto analogo a quello di Van Der Wayden nel suo Ritratto di donna. 

La coroncina ingioiellata, che gli angeli stanno per posare sul capo della Vergine, è ripresa da Van Eyck. Notate il suo contenuto: gigli bianchi, rose rosse e campanule. Simboli di purezza, Passione e lutto. Già il destino della leggente è impresso nel linguaggio dei fiori.

Vergine lèggente

SAN GIROLAMO NEL SUO STUDIO

L’opera risale circa al 1475; se non conosceste l’identità del suo protagonista, collochereste la scena nella contemporaneità di allora.

Eppure, siamo alla presenza di un santo; un santo dalla storia duplice e assai importante. San Girolamo è ricordato nell’iconografia artistica in due modi molto diversi, che richiamano le due fasi della sua vita. La prima lo ritrae molto anziano, magrissimo, con i vestiti a brandelli, mentre si aggira in un deserto spoglio e roccioso, in compagnia di un leone. Era il periodo che Girolamo trascorse in penitenza, nel mezzo del deserto siriano. La tradizione vuole che, un giorno, avendo incontrato un leone ferito, fu mosso a compassione, e lo salvò, togliendogli una spina malefica che gli era rimasta conficcata in una zampa. La bestiola, al posto di sbranarlo, gli fu immensamente grata, e divenne suo fedele compagno di viaggio

Passiamo alla seconda raffigurazione, la prediletta nel Rinascimento. Essa fa riferimento alla sua attività di studioso, e dotto conoscitore di Greco, Latino ed Ebraico. Fu lui che, intorno al 400 d.C., si impegnò a tradurre in latino l’Antico Testamento, rendendo il testo disponibile al popolo europeo. La sua versione, definita “Vulgata”, fu quella riconosciuta come ufficiale dal concilio di Trento del ‘500, che la rese la base dell’insegnamento cristiano per molti secoli. 

Evidentemente, nell’opera di Antonello, San Girolamo è immortalato seguendo questa seconda iconografia. Non manca, però, un rimando al suo periodo di penitenza… ma cominciamo ad analizzare con ordine questa ricca scena, e arriveremo anche a quello. 

Ci troviamo in un pittoresco interno dal sapore gotico, che potrebbe essere benissimo una di quelle chiese aragonesi disperse nel Sud Italia. Se ve lo foste dimenticati, vale la pena ricordare che Antonello amava infarcire i suoi dipinti di rimandi alla sua terra mediterranea. Straordinaria è la prospettiva: il rigore geometrico di Piero della Francesca è applicato alla lettera, reso virtuosisticamente con quel pavimento di maioliche. Maioliche siciliane, ovviamente! 

Se, poi, vi affacciate alle finestre, vi parrà di scorgere qualche paesaggio del Mezzogiorno; è una di quelle giornate di primavera, calde ma non troppo, in cui la luce si posa sulle colline, sbiancando il cielo all’orizzonte. 

Il gusto per il dettaglio fiammingo è riscontrabile ovunque: dalla natura all’esterno, alle due piantine solitarie che adornano lo scrittoio centrale. 

E passiamo giusto ad analizzare lo scrittoio. Uno scrittoio di lusso, con tanto di scaletta, leggìo inclinato per favorire la mano, e scaffalature brulicanti di oggetti. Lo si potrebbe definire un vero oggetto d’arredo architettonico, da far invidia ai più moderni designer. Protagonisti sono i libri: ce ne sono sul piano, così come sulle mensole. L’iconografia di san Girolamo, in quanto sapiente traduttore dell’Antico Testamento, è qui esplicitata in modo evidente. Se ci curassimo solo dello scrittoio, dimenticherebbero il suo lato “eremitico”. 

Il nostro santo, però, non è solo soletto nella sua chiesa gotica. A fargli compagnia troviamo un ricco bestiario assai curioso. In primo piano, poggiati su quella che sembra una cornice architettonica del dipinto, sono poggiati due pennuti variopinti. A sinistra vi è una pernice, che allude alla fedeltà a Cristo; a destra un bel pavone, simbolo di sapienza divina. L’acqua nel bacile richiamerebbe l’idea della purezza.

… Fedeltà, sapienza e purezza: tre virtù riconducibili al san Girolamo protagonista. Ma vi dico di più. Tutti e tre gli elementi possiedono anche un secondo significato, ossia, rispettivamente, stoltezza, superbia e vanità. Se vi affidate a questa seconda lettura, dovete vedere pernice, pavone e catino, come se si trovassero fuori dall’ambiente in cui si trova il santo, e a lui del tutto estranei.

Proseguiamo con gli animali, stuzzicando il gattino che sonnecchia accanto allo scrittoio; potrebbe ricordare gli istinti bestiali da cui un santo sa bene che deve stare alla larga.

Infine, ecco la bestiolina (per modo di dire…) che rivela l’eremitaggio nel deserto di Girolamo. Il leone. Quel leone a cui egli tolse la spina, e che divenne un po’ come il suo cagnolino fedele. Lo trovate a destra dello scrittoio, avvolto nell’ombra, mentre si aggira furtivo, quasi sorvegliasse il padrone. Le dimensioni canine non facilitano il riconoscimento… ma è proprio lui: il feroce leone delle terre rocciose della Siria!

Più si guarda questo dipinto, e più si scoprono storie da raccontare. Tutta colpa dei dettagli alla fiamminga, che non finiscono mai di fornire all’occhio materiale su cui pontificare. Tutta colpa, anche, di quel santo scrivente, che induce a imitarlo, e a scrivere fiumi di inchiostro a nostra volta…

(Ma abbiamo finito, promesso!)

San Girolamo nello studio

SALVATOR MUNDI

A prima vista, potrebbe essere l’opera di un pittore fiammingo. Di Petrus Christus, magari, ossia di uno dei maggiori importatori dell’arte delle Fiandre in Italia. 

Il Cristo Salvatore è raffigurato come fosse un ritratto nordico di un borghese del posto; solo la mano benedicente tradisce la sua sacra identità. Sfondo scuro, da cui emerge il soggetto reso con luci e colori tiepidi; punto di vista ravvicinato, e minuziosi particolari. Tutto fiammingo… manca solo la posa di tre quarti!

Tuttavia, se vogliamo essere sinceri, Antonello seppe anche aggiungere alcuni elementi della tradizione italiana. Si notano ancora oggi le correzioni successive che apportò al dipinto, come se ci avesse ripensato, e avesse deciso di distaccarsi dalla ritrattistica eccessivamente nordica. Per accentuare la profondità dello spazio (assente nel modello fiammingo), il messinese spostò la mano destra di Cristo in avanti. Pensò anche di introdurre una vistosa piega del colletto, così da creare un certo movimento… dettaglio dissonante, rispetto all’immobilità delle atmosfere dei suoi maestri. 

Salvator Mundi

LA VERGINE ANNUNCIATA

Se la definiamo annunciata, significa che l’annuncio è appena avvenuto. L’Arcangelo Gabriele ha fatto il suo ingresso nella stanza buia, e ha comunicato alla fanciulla il suo prossimo futuro. Se la osservate in volto, non sembra particolarmente sconvolta; piuttosto, è pensosa, meditativa… ha già accettato il suo arduo compito. La mano destra si allontana dal leggio, sospesa a mezz’aria, come se tutta la sorpresa del messaggio divino si fosse concentrata in quel gesto. Una mano esprime stupore, e l’altra pudicizia. La sinistra, infatti, si stringe il velo al petto, con un contegno di estremo riserbo. 

Poiché è impossibile comprendere davvero i suoi pensieri, tanto è enigmatico il suo sguardo, conviene concentrarci più sull’analisi di quest’opera straordinaria. 

Tra i ritratti di Antonello, la Vergine Annunciata è uno dei suoi maggiori risultati: qui, le conquiste fiamminghe e quelle italiane si fondono, in un complesso di monumentalità, razionalismo e dettaglio. Tanto è intensa l’espressione delle Madonna, e tanto è sospesa quella posa catturata in un istante infinito, che ci sembra di essere davanti a una finestra su un mondo atemporale. 

Il gusto fiammingo si nota nella posa di tre quarti, nel mezzobusto ravvicinato, e in quell’atmosfera immobile e ambigua, che tanto affascina l’osservatore. In aggiunta, c’è il leggio, in sapiente scorcio prospettico, che dà profondità a tutta la scena. 

Ciò che doveva essere davvero nuovo e straordinario agli osservatori italiani dell’epoca, era la resa delle velature e dei dettagli. Fino ad allora, i ritratti a tempera avevano impedito un simile realismo. Poi, arrivò Antonello, che con l’olio di lino cominciò a immortalare veri brandelli di carne e ossa. Dal Nord riprese la tecnica materiale, ma non la naturalezza: quella era tutta sua. L’umanità, raccolta nella tradizione mediterranea, lo aiutò a elaborare questo capolavoro di luce, psicologia e prospettiva. L’unione di Italia e Fiandre è qui esemplificata in questa giovane donna sospesa nel suo velo azzurro, colta nell’accogliere misticamente la sua chiamata. 

Annunciata

LA CROCIFISSIONE (SIBIU)

Delle tre versioni della Crocifissione, questa qui è probabilmente la prima, datata intorno al 1463. La prima, e la più affascinante in quanto a paesaggio di contesto.

Adottando una soluzione che ripeterà anche nella tela di Anversa, Antonello si distacca dalla canonica iconografia, appendendo i due ladroni non a croci, bensì a tronchi di legno mozzati. Ne risultano pose scomposte, che movimentano l’immobile staticità del Cristo. Sempre mettendo a confronto le due, qui notiamo anche una folla di dolenti più ampia: abbiamo la Vergine e la Maddalena (quella con i capelli rossi) a sinistra, mentre a destra vi sono San Giovanni disperato rivolto verso la croce, e due pie donne in sofferenza. Queste ultime, sono con ogni probabilità Maria moglie di Giacomo e Maria moglie di Cleofa.

Ma passiamo allo sfondo: vero capolavoro nel capolavoro. Se non avesse titolo di Crocifissione, sarebbe una veduta di Messina degna di esistere come dipinto di paesaggio a sé stante. Come sostengono gli storici, quello che vedete in lontananza è il porto a forma di falce della cittadina siciliana affacciata sullo Stretto. In mezzo allo specchio d’acqua, pare di distinguere persino le Isole Eolie! Le colline sono rese in modo esemplare, con tinte dorate, che si sciolgono nel pallido grigio-azzurro in lontananza. C’è una certa prospettiva aerea che pare leonardesca. Poi, passando a mezza distanza, ecco comparire tutto il popolino dei messinesi, che si affaccendano nelle loro occupazioni quotidiane, ignari di ciò che accade in primo piano. Potrebbe essere benissimo una qualsiasi giornata estiva sulla costa siciliana: la gente chiacchiera fuori casa, porta a spasso gli animali, o si appresta a scaricare il pescato della notte. Eppure, un grande evento è accaduto a poca distanza…

Il legame tra Antonello e la sua terra natìa emerge in ogni pennellata di questo dipinto. Messina fa sentire così tanto la sua presenza, da rubare quasi la scena al Crocifisso. Probabilmente, quando si trovò a dipingere quest’opera, sentiva una grande nostalgia di casa. La Sicilia e i suoi colori tostati dal sole del Mezzogiorno emergono almeno quanto le lezioni dei maestri Fiamminghi. La parte inferiore, con il Golgota disseminato di teschi, è ispirata ai tipici Calvari nordici; lo sfondo, invece, è di sapore italiano; meglio: mediterraneo. Anche le pose un po’ scomposte e indipendenti l’una dall’altra rimandano ai lavori delle Fiandre, fatti per essere osservati “a pezzetti”, come fossero piccoli scorci autonomi di realtà. Ciò che più viene voglia di osservare, però, rimane quel paesaggio siciliano, che invita a percorrere la stradicciola affollata, per poi prendere una barca e salpare verso la sponda opposta…

Crocifissione Sibiu

LA CROCIFISSIONE (ANVERSA)

A prima vista, il paesaggio che si scorge alle spalle del Golgota sembrerebbe una campagna marittima qualsiasi. Sapendo, però, che si tratta di un’opera di Antonello, possiamo affermare con discreta convinzione che si tratti dello stretto di Messina, circondato dalle colline della valle del torrente Camaro. Ad avvalorare questa tesi ci sono gli studi più recenti, che si sono giusto giusto dedicati all’identificazione dei paesaggi antonelliani.

Inquadrata la scena nei dintorni messinesi, immaginiamo di percorre una delle sue stradine, che dal mare volgono in direzione opposta. Lungo il cammino, vedremo qualche animaletto selvatico, le rovine di un antico edificio, e un vecchio castello ormai abbandonato. Non che essi siano veramente presenti fuori da Messina; si tratta di una serie di rimandi all’antico, che tanto piaceva includere ai Veneziani nei loro sfondi. Dal momento che Antonello soggiornò a lungo a Venezia, ebbe modo di appassionarsi anche lui a questa moda pittorica del tempo…

Fermiamo infine i nostri passi sul primo piano. Un monticello brullo, pari al Golgota descritto nei Vangeli, su cui se ne stanno impiantate tre croci. Quella al centro, di forma canonica, ospita il corpo di Cristo, che Maria e San Giovanni sono intenti a piangere dalla loro posizione terrena. Questi tre soggetti, assieme al paesaggio, sono tipicamente fiamminghi. Fiamminghi i dettagli con cui è narrato lo scorcio messinese, e fiamminghi anche gli abiti dei due dolenti (guardate la scarpetta appuntita di Giovanni…). Ciò che è curiosamente nuovo, invece, sono gli altri due ladroni crocifissi, che se ne stanno appesi in posizioni contorte a dei tronchi d’albero. 

Infine, tutt’attorno ci sono simboli che presagiscono la morte. Il gufo, il serpente, e il teschio di Adamo. Il proscenio è un pullulare di oggetti dal gusto ancora nordico, che comunicano tutti i non detti all’osservatore. C’è persino un piccolo cartiglio, appeso a un’asse spezzata sulla sinistra, che riporta la firma del maestro messinese. 

Crocifissione Anversa

LA CROCIFISSIONE (LONDRA)

Come si suol dire, non c’è due senza tre. Anche di Crocifissione, Antonello ne realizzò una terza versione, datata intorno al 1475, e oggi conservata a Londra. Come più e più volte visto in Antonello (si può dire che proprio gli piacesse questa soluzione!) c’è nel dipinto un piccolo cartiglio, che ci dice: “147? – Antonello da Messina mi dipinse”. Purtroppo, l’ultima cifra è cancellata, ma almeno è stata salvata la firma dell’autore. 

Analogamente alle altre due versioni, lo sfondo è un paesaggio messinese, realizzato con gusto e dettagli fiamminghi. Le colline sono le solite, e anche il mare che si disperde nel chiarore dell’orizzonte. Ciò che cambia è il proscenio: mancano gli altri due ladroni, che avevamo visto appesi ai tronchi rinsecchiti. Qui, c’è solo il Cristo in croce, con la Madonna e san Giovanni che lo osservano dal basso rattristati.

Quel trio di donne collocate a mezza distanza non è ben identificato; ma è probabile che siano le tre Marie, che si incamminano in direzione del paesello. 

Se guardate bene il santo ai piedi della croce, e ripescate nella memoria l’opera di Anversa, noterete qualcosa di molto, molto simile. Si tratta della scarpetta nera, lievemente appuntita, che ben potrebbe essere calzata da un popolano fiammingo. Per replicarla identica, doveva essere un modello davvero impresso nella mente di Antonello…

Crocifissione Londra
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La Vergine Leggente: l’Antonello dei Milanesi

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Lo sguardo enigmatico della Vergine pensosa carpisce subito l’osservatore. Silenziosa, distoglie per un attimo l’attenzione dal libro che reca tra le mani, per rivolgersi al nuovo venuto. Sarà l’Arcangelo Gabriele, giunto per dare il suo annuncio? Oppure, un semplice visitatore, che si è ritrovato davanti alla Vergine Leggente al Museo Poldi Pezzoli? Chissà…

Fino a qualche anno fa, il suddetto visitatore non avrebbe neppure potuto imbattersi in quest’opera curiosa: la donazione è recentissima, ed è una di quelle rare occasioni in cui poter ammirare Antonello da Messina in terra milanese. Le testimonianze del pittore siciliano, infatti, sono disperse in giro per il mondo; questa piccola effigie è una vera perla preziosa. Ancor più, considerando che poco sappiamo di lui, malgrado la sua importanza per la storia dell’arte di tutto il Rinascimento e i tempi a venire. Perciò, dobbiamo essere grati al signor Roberto Longhi, che, nel non così lontano1944, attribuì la tela ad Antonello, aggiungendo un tassello speciale al suo mosaico di produzione ancora misteriosa. E lo dobbiamo essere anche nei confronti di Luciana Forti: la gentile donatrice dell’opera, che l’ha affidata alle mani del Poldi Pezzoli nel vicinissimo 2018.

Misterioso l’autore, e misteriosa è anche l’opera in questione. Non sappiamo con certezza quando fu realizzata; a giudicare dallo stile, ancora piuttosto acerbo, gli esperti la riconducono al suo periodo giovanile, trascorso tra Napoli e la Sicilia. 1460, come dice la didascalia…

Per comprenderlo al meglio, occorre ricordare ciò che la mano messinese assorbì in quegli anni di apprendimento. Tra il 1445 e il 1455, Antonello lasciò la sua terra natia, per giungere nella più popolosa metropoli del tempo: Napoli. Laggiù, erano tempi in cui la pittura fiamminga era molto di moda, giunta con quei capolavori che i commercianti attivi nelle Fiandre non si facevano mancare nelle loro collezioni domestiche. E, poi, c’erano persino gli artisti fiamminghi in persona, in viaggio in Italia per curare la loro personale formazione. Insomma, essere un pittore alle prime armi, a Napoli, e circondato da personaggi nordici assai apprezzati, si traduceva in un fascino indiscusso nei loro confronti. Così accadde anche ad Antonello, che si ispirò moltissimo alle tecniche fiamminghe, a cominciare dalla ritrattistica (che è ciò che qui ci interessa)…

Ritratto, per i Fiamminghi, si traduceva in posa di tre quarti, così da poter comunicare al meglio tutta la psicologia interiore dei soggetti. Niente più profili impalati, bensì uomini e donne umani, naturali, che parevano invitare l’osservatore a rivolgere loro la parola. Lo sfondo era scuro, così da far emergere la figura in primo piano, mettendo in luce ogni singolo dettaglio. Dettagli: altro tratto emblematico, che si traduceva in particolari a profusione, tanto negli abiti, quanto negli oggetti disposti accanto agli effigiati. Ultima cosa, la tecnica a olio. Oggi scontata, fino ai Fiamminghi mai utilizzata. Qui, però, il pittore adotta un misto di tempera e olio, e non olio puro. Lo potete capire dall’incarnato: pallido, tendente al verdognolo, come era inevitabile che avvenisse con la tempera. Questa, infatti, prevedeva come prima cosa di stendere uno strato scuro, su cui poi veniva costruito il colore della pelle, sovrapponendo tinte via via più chiare. 

Ebbene, tutto quanto detto si traduce nella Vergine Leggente in questione, quale esempio di ispirazione ai grandi nomi nordici del tempo… pensate a Van Eyck o a Roger Van Der Wayden, per intenderci. È ora di fare conoscenza con questa Madonna antonelliana del Poldi Pezzoli… 

Già dal primo saluto, cattura senza scampo l’attento osservatore. Merito di quell’inquadratura così ravvicinata, anch’essa tipica fiamminga, che ce la presenta come fosse un essere vivente. È lì, che ci osserva dalla sua tela, accortasi di noi mentre era concentrata sul suo volumetto di preghiere. Un volumetto di ottima fattura: rilegato in pelle, con piccole borchie metalliche sulla copertina, e dalle pagine profilate d’oro. E, poi, c’è quel piccolo segnalibro d’oro, che potrebbe muoversi da un momento all’altro, come fosse appeso davvero alla tela. 

Raffinatissimo è l’ abbigliamento della Vergine: mantella blu notte, forse di velluto, con una spilla di perle che circondano un rubino. Un gioiello adatto a una dama dell’alta società quattrocentesca. Ciò che più toglie il fiato, è quel velo bianco, dai drappeggi trasparenti, che vuole alludere simbolicamente al matrimonio. Se siete pratici degli artisti fiamminghi, l’avrete già visto da qualche parte: è quasi lo stesso del Ritratto di donna di Va Der Wayden (Washington). Dal momento che quest’ultimo risale al 1435, è assai probabile che il messinese ne abbia tratto spunto per la sua versione.

Tuttavia, se Antonello cerca di imparare dai maestri che lo affascinano, l’opera in questione è anche un campo di sperimentazione. Come un qualsiasi scolaro intraprendente, anche lui prova, e riprova. Sbaglia, e corregge. Di correzioni, qui, ce ne sono in abbondanza: le radiografie hanno rilevato addirittura un San Michele Arcangelo sotto il dipinto attuale. Inoltre, riconoscerete facilmente la modifica (molto evidente) della mano destra, che in origine doveva essere quasi tutta visibile sulla copertina del libro.

Passiamo alla corona: una tiara principesca, che due angioletti sono nell’atto di adagiare sul capo della Vergine. Anche qui, citiamo subito il rimando nordico, che ci riconduce al Polittico di Gand, realizzato da Jan e Hubert Van Eyck. Esattamente come nel particolare fiammingo, la Madonna di Antonello sta per essere adornata da un copricapo a dir poco floreale. Un bouquet di simboli, che alludono all’iconografia mariana ed evangelica. Abbiamo i gigli bianchi, emblema di purezza e verginità; abbiamo le rose rosse, che anticipano la Passione del Figlio; e non mancano le campanule: quei timidi fiorellini sull’azzurro, indicanti il lutto che la donna dovrà sopportare. In quella quiete silenziosa della scena, è espresso il futuro tragico della morte di Cristo. Se osservate bene, la Vergine, con il suo sguardo pensoso e perso nel vuoto, pare già conoscere il supplizio. Eppure, non si muove. Accetta di sottomettersi alla volontà di Dio. Non si oppone. Non reagisce. Ha fede nell’Altissimo, ed è pronta a fare ciò che le è chiesto.

Con questa nuova lettura profonda e introspettiva nel cuore, torniamo ancora una volta a rivolgerci alla protagonista del dipinto. Se, all’inizio, ci eravamo soffermati solo sulle minuzie tecnicistiche, ora possiamo comprendere davvero la sua mestizia e il suo strano contegno. Lei sa. Sa del sacrificio di suo Figlio, ancor prima di averlo dato alla luce. E così, quando gli angeli la incoronano e la chiamano Beata, lei si prepara con l’animo ad affrontare la sua grande, e al contempo difficilissima, chiamata…

Giovanni Antonio Boltraffio

Giovanni Antonio Boltraffio

L’ARTISTA Facciamo conoscenza con un pittore milanese di fine Quattrocento, che vanta l’appellativo di miglior allievo diretto di Leonardo. Se è lunga la lista di coloro che si sono ispirati al maestro fiorentino, questo qui è senza dubbio tra i suoi più fedeli imitatori. Bravo a 

Fiabe braidensi – Il roseto più rigoglioso della Pinacoteca

Fiabe braidensi – Il roseto più rigoglioso della Pinacoteca

Quel giorno, poco prima di varcare la soglia della “Galleria degli Affreschi”, la Risolartista fece (quasi) uno scontro curioso. Si ritrovò sulla traiettoria di un personaggio piuttosto ingombrante, quanto molto insolito da trovare in un museo. Era un giardiniere.  Era un giardiniere vero, anche se 

Antoon Van Dyck

Antoon Van Dyck

L’ARTISTA

Abbandonando la classica pittura fiamminga del Quattro-Cinquecento, ci dobbiamo spostare più avanti, varcando la soglia del XVII secolo. Antoon Van Dyck nacque giusto giusto nel 1599, inaugurando il nuovo periodo con la sua raffinata espressività artistica. Assieme a Rubens, di cui fu allievo, può definirsi il più grande pittore delle Fiandre del 1600. 

Dal cognome, intuiamo che i suoi natali furono nordici; di Anversa, per la precisione. Era figlio di un ricco mercante, il quale, quando il bambino aveva solo dieci anni, pensò bene di metterlo a bottega presso un noto artista locale, tale Van Balen. Si trattava del decano della gilda di San Luca, ossia una delle più importanti corporazioni di artigiani e artisti delle Fiandre. 

Tuttavia, la sua scalpitante voglia di dipingere lo rese presto autonomo: nel 1615, a sedici anni, si dice che avesse il suo studiolo autonomo, del tutto indipendente dalla gilda. Cosa piuttosto strana: le regole della corporazione stabilivano che non ci si potesse mettere in proprio fino al raggiungimento della maggior età (e 16 anni non bastavano!). 

Misteri a parte, il talento di Van Dyck non si fece attendere: nel 1617 era divenuto assistente dell’anziano Rubens, il quale lo influenzò con il suo stile, almeno quanto ne riconobbe il valore di rimando. Il nostro artista, infatti, è ricordato come il miglior allievo del grande pittore fiammingo, per non dire suo vero successore. 

La strada di Antoon si separò da quella di Rubens già nel 1621, quando partì per l’Inghilterra, dove si costruì un’ottima reputazione di ritrattista. Le sue doti pittoriche, di grande realismo e raffinatezza, erano molto apprezzate presso la nobiltà inglese. Ancora, però, egli non aveva voglia di rimanere stabilmente sull’isola, per cui preferì giungere in Italia, intraprendendo il tipico “viaggio di formazione” che ogni artista nordico doveva compiere nel corso della sua vita. La promessa fatta al re inglese di restare lontano solo per qualche mese non fu esattamente mantenuta… più di otto anni passarono, prima che il pittore rimettesse piede sull’isola britannica! Una motivazione valida, però, c’era: la cultura prima di tutto. Cultura, per un artista dei tempi, voleva dire apprendere dai grandi maestri italiani del recente passato. 

Prima di varcare le Alpi, Van Dyck fece una pausa in terra fiamminga, approfittando per soddisfare qualche suo conoscente, con ritratti d’eccezione. È di questo periodo l’immagine della moglie di Rubens, la signora Isabella Brant, realizzata sulla base di un bozzetto fatto anni e anni prima dal maestro. 

Abbandonata finalmente Anversa, con innumerevoli “raccomandazioni” firmate da Rubens (che aveva molte conoscenze in Italia) nella tasca della giacca, fece il suo ingresso trionfale nel Bel Paese. Mentre il predecessore, ai tempi del suo personale viaggio di formazione, non era ancora molto noto, il nome di Van Eyck era già rinomato presso l’alta società italiana. Fu così che, non appena fu arrivato a Genova, sua prima tappa, le richieste di ritratti cominciarono a fioccare da ogni dove. 

Dopo la Liguria, passò a Roma, e quindi in altre città del Centro Italia, tra cui Firenze. Lunga fu la tappa di Venezia, in cui rimase affascinato dall’arte di Tiziano: sua musa ispiratrice, seconda solo al grande Rubens. 

Percorrendo a ritroso il suo viaggio, soggiornò a Mantova, e poi di nuovo a Roma. Infine, sbarcò in Sicilia, accogliendo l’invito del Savoia, che lo aveva chiamato per farsi fare un bel ritratto (chissà come mai…!). Ed è proprio a Palermo, che ebbe l’occasione di incontrare colei che riteneva la sua vera maestra. Ancor più di Tiziano, e ancor più persino di Rubens, Sofonisba Anguissola lasciò il segno nella sensibilità dell’artista fiammingo. La conobbe quando aveva più di novant’anni, e le fece ben due ritratti di splendide fattezze. Grazie alla mano di Van Eyck, possiamo oggi ammirare tutta l’energia che ancora pervadeva il volto di quella grande pittrice cremonese del tempo…

Abbandonata la Sicilia per sfuggire alla peste, Antoon ripiegò di nuovo a Genova, e partì dall’Italia, facendo ritorno ad Anversa. Furono anni fiamminghi di grande fervore religioso, che si evince dalle opere di quel periodo. Tuttavia, il suo destino non era quello di rimanere stabile nelle Fiandre: c’era qualcuno che scalpitava per poterlo avere ai suoi servizi a corte. Si trattava del re inglese Carlo I, che sembrava aspettarlo sin dal momento in cui, anni e anni prima, Van Dyck se ne era andato dall’isola. Finalmente, accettò di prestare i suoi servigi alla corona britannica, e fu accolto con ogni onore. 

Carlo I aveva una vera passione per l’arte di questo pittore, in quanto lo riteneva l’erede diretto del suo altro prediletto, quale era stato Tiziano. Innumerevoli sono i ritratti che si fece realizzare, talvolta a cavallo, talvolta invece a caccia o nel suo palazzo

La generosità del re non si fece attendere: Van Dyck fu pienamente ricompensato per i suoi sforzi, ottenendo il titolo di “baronetto”, oltre che di un trattamento (e dei compensi) da vero membro della nobiltà inglese dell’epoca. 

Vivendo alla corte londinese, il nostro artista si immerse appieno nella sua vita aristocratica, divenendone egli stesso protagonista. Non faceva solo quadri, ma organizzava banchetti, si intratteneva con nomi d’eccezione, e girava in carrozza con servi e cavalli. Si può dire che avesse trovato la fortuna accanto al suo mecenate Carlo I. 

Così grande era la stima che quest’ultimo nutriva nei confronti di Van Dyck, che, alla morte del pittore, volle farlo seppellire nel posto d’onore destinato ai grandi personaggi della storia: la. Lì, ancora oggi, la sua anima sensibile di artista fiammingo naturalizzato inglese riposa in pace, dopo una vita breve, ma ricchissima di opere e successo.

LA SUA PITTURA

Dalle innumerevoli vicende della vita (breve, ma intensa) si intuisce già il valore artistico di questo pittore. Il miglior allievo di Rubens, se non riuscì a superare il maestro, almeno si pose al suo livello. 

Ed è proprio da Rubens che dobbiamo cominciare, per comprendere qualcosa sullo stile di Van Dyck…

Sappiamo che, già nel 1615, qualche contatto con il suo futuro insegnante vi era stato. Un paio d’anni passarono, e Antoon divenne ufficialmente collaboratore della sua bottega. Le cose tra loro funzionavano così: Rubens cercava i committenti e faceva i bozzetti, mentre Van Eyck eseguiva il dipinto vero e proprio. Se non avesse avuto una mano speciale, di certo una simile organizzazione non avrebbe funzionato! Del resto, lo stesso maestro aveva capito fin da subito il talento che si trovava davanti, e si impegnò a instradarlo sulla sua carriera.

Una volta appresi i punti chiave della pittura di Rubens, Van Dyck non si fermò: anzi, si impegnò per acquisire una tecnica unica, distinta da quella dell’altro fiammingo. Rispetto al maestro, il suo stile divenne meno scultoreo, e dalle coloriture “liriche”, più raffinate. Merito dell’influenza italiana, che lo catturò molto presto.

Giunto in Italia, non poté che essere attratto dalla pittura di Tiziano, con il suo cromatismo vivace, ma anche intimo e profondo.

Se da Rubens e da Tiziano riprese i colori, l’attenzione ai dettagli era un lascito degli albori dell’arte dei Fiamminghi. Osservate certi pizzi o certe minuziose bordature degli abiti, e rimarrete incantati dalla loro perfezione. 

Ma parliamo dei ritratti: il suo genere prediletto, che domina decisamente sulle opere a carattere religioso. I ritratti di Van Eyck, riprendendo il modello caro a Tiziano e Rubens dello “state portrait”, sono effigi ufficiali, che poco hanno di introspettivo, e molto di senso di importanza. La loro funzione, infatti, era quella di rappresentare l’elevato ceto sociale del protagonista, nonché la sua raffinatezza e il rispetto di cui godeva. 

I primi ritratti degni di nota nacquero a Genova, per poi continuare durante tutto il suo viaggio in Italia, culminando nell’alta società fiamminga e inglese. Proprio a Londra, egli divenne “ritrattista di Corte”, trovandosi a soddisfare i desideri di tutta la migliore nobiltà inglese. Emblematiche in questo senso sono le rappresentazioni di Carlo I, che variano dal ritratto ufficiale, alle scene quasi bucoliche che lo immortalano a caccia, nel verde della campagna inglese. 

LE OPERE

RITRATTO DEL CARDINALE GUIDO BENTIVOGLIO

Il soggetto dell’opera dice molto della terra natale del suo autore: il cardinale Bentivoglio aveva un profondo legame con le Fiandre, in quanto ne aveva narrate le guerre in un celebre resoconto. Van Dyck la realizzò ai tempi del suo Viaggio in Italia; per la precisione quando si trovava a Roma, ed ebbe occasione di incontrare il suo protagonista. 

Fin da subito grandissimo fu il successo di questo ritratto… c’è chi diceva che non ne avrebbe mai potuto fare uno più bello. In effetti, se si guarda alle scelte cromatiche, è splendida l’armonia visiva data dal rosso della veste, che rimbalza sul panneggio di sfondo, illuminandosi di bianco in entrambi i casi. In questo modo, la tinta cremisi dell’abito cardinalizio (dal colore molto acceso, ma inevitabile da includere) si integra benissimo nella tela, senza risultare troppo forte. Piccoli colpi di genio di un artista cresciuto sulle spalle di Rubens e Tiziano.

“Straordinaria sinfonia di rossi” è uno degli appellativi di cui gode la tela. Come già detto, l’occhio dell’osservatore non può trattenersi dal rimanere affascinato dalle sfumature intense, ma armoniche, di quel panneggio avvolto nella penombra. Il colore, però, non è la sola componente di rilievo. Guardate alle fattezze nobili ed eleganti dell’effigiato. E guardate alle pennellate, variabili, a seconda dell’oggetto che sono chiamate a raffigurare. Si fanno rapide e pastose tra le pieghe della veste, per poi sfociare nelle minuzie candide dei pizzi. C’è del tizianesco, del fiammingo, e il Rubens che campeggia in sordina. Il tutto racchiuso in una scenografia ombrosa, che, con quella tenda rosso scuro, pare davvero il palcoscenico di un teatro. 

Ritratto del Cardinale Bentivoglio

 RITRATTO DI SOFONISBA ANGUISSOLA

Era l’estate del 1624. Un’estate caldissima, a quanto dicono, e segnata dal dilagare della peste in tutta la Sicilia. Tuttavia, il contesto sfavorevole non impedì l’avvenire di un incontro speciale, che si svolse in una stanza nobiliare dal gusto barocco. Palermo, a quei tempi, era la dimora di una grande pittrice: Sofonisba Anguissola. Noto era il suo nome in Europa, a tal punto da essere giunto fino alle orecchie fiamminghe di Van Dyck. Questi, infatti, aveva voluto spingersi fino al profondo del Mediterraneo, per incontrare lei… per incontrare la signora dell’arte del ‘500.

Malgrado avesse 92 anni, Sofonisba doveva ancora apparire molto fiera, in tutta la sua aura mistica di pittrice d’eccezione. Fu in quell’occasione che diede al giovane artista preziosi consigli pittorici, di cui egli non mancò di fare tesoro. Sarà lui stesso a dire di aver imparato da Sofonisba più di quanto potesse aver appreso da altri.

Da quell’incontro fondamentale per il pittore fiammingo, ne nacquero due ritratti. Due piccoli capolavori, che conservano eternamente la memoria e l’aspetto della prima grande donna dell’arte, quale era alla fine della sua vita. In quello in questione, emerge tanto il talento ritrattistico dell’autore, quanto le fattezze consunte, ma ancora vitali, della protagonista. Riprendendo lo stile raffinato e sottile di Sofonisba, Van Dyck la immortalò in modo analogo a quanto lei stessa era solita fare. Sfondo scuro e indefinito; posa fiamminga di tre quarti; e un’espressività assai vicina al reale.

Ritratto di Sofonisba Anguissola

RITRATTO DI ELENA GRIMALDI CATTANEO

Ecco a voi una giovane aristocratica della Genova di inizio Seicento. Si tratta di Elena Grimaldi Cattaneo, membra di una famiglia che, a quanto pare, era già nota all’artista dai tempi di Anversa. Come spesso avveniva per i ricchi commercianti italiani, questi erano soliti aprire delle “filiali” a nord, approfittando dei fiorenti mercati fiamminghi. Tali Cattaneo erano commercianti tessili, esattamente come lo erano i Van Dyck. Non è inverosimile che ci fossero stati contatti passati…

Contatti, che si rivelarono piuttosto utili all’artista appena giunto in Italia. Forse, è grazie a tali conoscenze, se trovò subito favorito e ben inserito nell’ambiente genovese del tempo, così da assicurarsi vitto, alloggio e committenze. A riconfermare la sua familiarità con l’aristocrazia di Genova, c’è da dire che passò proprio lì la maggior parte del suo tour italiano: un appoggio sicuro, su cui fare sempre affidamento in caso di problemi…

Ma torniamo alla protagonista, la signora Elena. La vediamo ritratta a figura intera, adombrata da un bel parasole scarlatto. Per realizzare il dipinto, non dovete pensare che la povera effigiata sia stata costretta a rimanere in posa chissà per quante ore (se non giorni). Come capiamo dal bozzetto dell’opera, Van Dyck era solito realizzare “in presenza” solo uno schizzo dei lineamenti del viso, per poi fare tutto successivamente, nel suo studio. In questo modo, si poteva dedicare a curare ogni dettaglio, avvalendosi della collaborazione di manichini che indossavano (senza lamentarsi) gli splendidi abiti che amava raffigurare.

Uno spunto per il ritratto in questione viene certo dalla Brigida Spinola Doria, di mano rubensiana. Se li confrontate, noterete l’ampio colletto vaporoso spiccare in entrambi. Tuttavia, Rubens non fu il solo ispiratore; accanto dobbiamo ricordare la Lavinia di Tiziano, la cui posa sembra proprio la stessa.

Raccogliendo tali due importanti contributi, ne venne fuori la splendida Elena Grimaldi Cattaneo, abbigliata con un abito nero alla moda spagnola(in voga nella Genova di allora). Alle sue spalle, c’è un curioso servitore nero, che le regge quel parasole già citato. Parasole emblematico, che accende a contrasto il pallore del volto, armonizzando tutti i toni cromatici.

Ma passiamo nel retroscena, dove una quinta architettonica di colonne e capitelli corinzi dona maestosità e importanza alla protagonista. Potrebbe essere la dea di un tempio greco… oppure la regina dei possedimenti dei Cattaneo, che si intravvedono sulla sinistra.

L’ultima occhiata è da dedicare a ciò che la donna tiene stretto in mano: un fiorellino d’arancio. Di solito è simbolo di matrimonio; eppure, Elena, a quei tempi, aveva già tanto di sposo e bambini! Dunque, la presenza di quei bocciolini rimane ancora un mistero…

Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo

RITRATTO DI DAMA (BRERA)

L’ispirazione di quest’opera viene direttamente dal ritratto di Maria de’ Medici in abiti da lutto, realizzata qualche tempo prima da Rubens. Qui, però, abbiamo una dama fiamminga, membra della famiglia Croy di Bruxelles. 

Malgrado il contesto funebre, esplicitato nel nero intenso della veste, si tratta di un’immagine affascinante, di raffinatezza sublime. La tenda dorata, che avvolge la protagonista, accende di colore la cupezza dell’abito: pare di essere davanti a una pièce di teatro. Quella che era una tragedia reale, si fa tragedia da palcoscenico, acquisendo un carattere spettacolare. Non servono luci aggiuntive a illuminare la scena: l’oro caldo si avvale della collaborazione di pizzi e merletti, che accendono di vita maniche e decolleté. Il tutto, poi, è completato da minuziosi braccialetti, collane, e una pesante croce ingioiellata, su cui rimbalzano i riflessi luccicanti. Un capolavoro di dettaglio fiammingo, spunti rubensiani ed eleganza tipica della mano di Van Dyck.

Ritratto di dama

AUTORITRATTO CON GIRASOLE

Con questo bel fiore dorato, Van Dyck inaugura la tradizione dei girasoli nella pittura, aprendo la strada al conterraneo Vincent Van Gogh (e non a lui solo!). Certo, qui siamo qualche secolo prima, in un contesto storico molto diverso, e con ideali pittorici altrettanto differenti. Nulla toglie, però, che il fascino del giallo dei petali dei girasoli sia una costante in entrambi gli artisti…

Non è questo il tempo di parlare del Post-Impressionismo vangoghiano, bensì del girasole di Van Dick, che gli fa compagnia nel suo splendido autoritratto. 

Cominciamo, allora, con il collocarlo temporalmente intorno al 1532, quando ormai l’artista si trovava stabilmente nella corte di re Carlo I d’Inghilterra. Vale la pena ricordare quale fosse il suo tenore di vita di quel periodo, in quanto dice molto sul significato dell’opera. Erano tempi più che d’oro per il pittore, che era entrato nella cerchia aristocratica del sovrano britannico, immergendosene da capo a piedi. Si racconta che, con il suo bel titoletto di sir, Van Dyck fosse diventato un nobile a tutti gli effetti: gli mancava solo il sangue blu! Aveva vesti sfarzose, carrozza con cavalli, e innumerevoli servitori. Si dedicava alla pittura, almeno tanto quanto alle conversazioni nei salotti, in compagnia della migliore società londinese. Insomma, se la passava bene, accolto con tutti gli onori in qualità di “ritrattista di corte” presso il suo committente reale, perdutamente appassionato dei suoi dipinti.

La sua nuova vita aristocratica si nota subito guardando al nostro autoritratto. L’abito lussuoso la dice lunga sulle sue abitudini di vita, per non parlare di quella catenella d’oro. Se osservate con attenzione, sembrerà anche a voi che Van Dyck voglia metterla ben in mostra, ostentandola con orgoglio. Come mai? Ebbene, si tratta di una preziosa collana d’oro, che gli fu donata da Carlo I, come simbolo del suo nuovo status altolocato. Fin dal suo ritorno in Inghilterra, il suo desiderio sembrava essere quello di avere un bel titolo nobiliare… titolo, che non tardò ad arrivare. Divenne baronetto, e membro dell’esclusivissimo Ordine del Bagno. Ora si capisce come mai questo pittore abbia preferito ritrarsi come un principe, piuttosto che con in mano tavolozza e pennelli!

Rimane da capire come mai si trovi in compagnia del meraviglioso fiore d’oro. Ancor più, verrebbe da chiedersi perché abbia voluto dipingere il girasole enorme, rendendolo protagonista della scena almeno quanto la sua stessa effigie. 

Per rispondere, non possiamo avvalerci delle passate simbologie: il girasole, prima di allora, non era mai comparso in nessun quadro. Infatti, si tratta di una varietà botanica non europea, ma che fu importata da noi dall’America, come dono per il re di Spagna. Oltreoceano, nell’Impero Inca, esso aveva il significato di sole e di regalità; si ritenne che fosse un regalo adeguato al sovrano ispanico. Malgrado questa bella storia, non è a questa che ci dobbiamo affidare per interpretare il nostro autoritratto…

Qui, bisogna pensare a una caratteristica del comportamento del girasole. Ossia il cosiddetto “eliotropismo”. Si tratta della sua propensione a essere sempre rivolto in direzione del sole, inseguendolo da mattino a sera. Ebbene, dobbiamo prendere questo eliotropismo, e spostarlo nel contesto di Van Dyck alla corte inglese. 

Il pittore, al cospetto di Carlo I, si fa girasole che si rivolge e segue ovunque il corso del sovrano. Il re è rappresentato dal sole: luce e fonte di vita per il fiore, almeno quanto per l’artista. 

Riordinando gli spunti, possiamo ora giustificare la curiosa presenza del girasole nel ritratto, riconoscendo in lui lo stesso Van Dyck. Da singolo autoritratto, otteniamo un doppio ritratto! Un doppio ritratto con cui, nel suo significato più profondo, egli voleva esprimere l’immensa gratitudine nei confronti di Carlo I, che lo illuminava quotidianamente di onori e ricchezza…

Autoritratto con girasole

MADONNA DEL ROSARIO

Quest’opera è la più importante commissione pubblica che fu realizzata da van Dyck durante il suo viaggio in Italia. Ancora oggi, la possiamo trovare nella sua collocazione originaria: l’Oratorio del Rosario di San Domenico a Palermo

Dal luogo suddetto, capiamo che risale al periodo in cui l’artista si era recato in Sicilia, intorno al 1624. Tuttavia, non fu realizzata completamente laggiù: tanto contagiosa e pericolosa era la peste, che fu necessario scappare dall’isola, e riparare a Genova. 

La storia della pala nasce da un miracolo. In quel periodo, furono scoperte sul Monte Pellegrino le spoglie di Santa Rosalia: un’eremita che già era stata oggetto di passata venerazione. Poco dopo il ritrovamento, l’epidemia di peste cominciò a diminuire, fino a scomparire completamente: miracolo! Almeno questa era l’idea del popolo locale (notoriamente molto sensibile alle credenze mistiche), che portò al diffondersi di un ferventissimo culto di questa santa. 

Con la nuova Rosalia quale grande oggetto di venerazione, era necessario provvedere a rinfarcire la sua iconografia (prima piuttosto scarsa), realizzando nuove opere su di lei. Un grande contributo in questo senso lo diede il nostro Van Dyck, con una serie di opere che la raffiguravano con i suoi neonati attributi. Nelle sue tele, la vediamo con i capelli biondi, il saio francescano (che ricorda l’eremitaggio) e il teschio (rimando all’aver sconfitto la peste): tutti simboli che la accompagneranno nelle raffigurazioni a venire. 

Tra i dipinti commissionati al pittore fiammingo, spicca questa pala per l’Oratorio del Rosario, che pareva essere manchevole di un’immagine della nuova santa di moda…

Ottenuto l’incarico, Van Dyck se ne andò presto a Genova, dove eseguì quasi tutto il suo capolavoro. 

Ed ecco qui il risultato: una Madonna che porge dall’alto il rosario a san Domenico, riprendendo la tipica iconografia mariana. Ai suoi piedi, ci sono i vari santi richiesti esplicitamente dai committenti, tra i quali si contano cinque sante legate a Palermo e alla Sicilia. L’immancabile figura, però, è Santa Rosalia, che vediamo inginocchiata a sinistra, di spalle, riconoscibile per il saio e i suoi lunghi capelli biondi. Giusto accanto a lei, c’è un bimbo che scappa tappandosi il naso, guardando in direzione di un teschio: è il simbolo del fetore della peste, che fu scacciata dall’intercessione della santa. 

Se analizziamo la composizione della scena, possiamo percepire un che di familiare con un’opera di Rubens: la prima versione della “Madonna della Valicella”. Molto simile è l’arco al centro (per non dire uguale), così come quella santa con in mano il rametto di ulivo, in cui sembra di rivedere la santa Domitilla del dipinto del maestro. 

Tuttavia, la mano di Van Dyck seppe reinventare il collega fiammingo, aggiornando la sua lezione con gli influssi veneziani a lui tanto cari. Il colorismo vivace, il san Domenico e il gesto della Vergine, sono particolari decisamente tizianeschi. Ed ecco che, in quella scena affollata di santi, puttini e luci contrastanti, si mescolano abilmente i due grandi predecessori, Rubens e Tiziano, lasciando un’impronta indelebile nel panorama palermitano. 

Madonna con Bambino

MADONNA CON BAMBINO E SANT’ANTONIO DA PADOVA (BRERA)

Se la confrontiamo con la sorella che le sta accanto nella sua dimora attuale braidense (ossia con il Ritratto di Dama sopra descritto), ci sembrerà di aver cambiato artista. Eppure, si tratta della stessa mano, anche se con influenze assai diverse.

Mentre la donna in nero si ispirava alla ritrattistica fiamminga e al maestro Rubens, qui spicca il rimando a un altro grande nome. Parliamo di Tiziano: quel grande pittore veneziano, che lasciò affascinato Van Dyck, non appena ebbe messo piede a Venezia. 

Il soggetto religioso della Madonna con il Bambino è qui declinato in uno stile che ha tutto il sapore della colorismo tizianesco. I colori sono vividi, e i panneggi definiti, con riflessi luministici molto curati. Guardando i volti, si rimane incantati dalla loro dolcezza, espressa in un naturalismo grandioso. Delicatissimo è il Bambinello che sfiora il Sant’Antonio con la sua manina; un po’ stralunata la Vergine, forse, ma assai vicina ai modelli di Tiziano. 

E così, con quest’opera scambiata (letteralmente) con il Louvre un paio di secoli fa, Brera ci offre una duplice visione sull’artista: prima avete scoperto il Van Dyck ritrattista rubensiano, e ora ammirate i suoi soggetti religiosi di spirito veneziano. 

Madonna con Bambino e Sant’Antonio
Sofonisba Anguissola

Sofonisba Anguissola

L’ARTISTA Ebbene sì: siamo davanti a uno di quei rarissimi (e preziosissimi) esemplari di artiste donne, che hanno fatto la storia della pittura. Il caso di Sofonisba ha ancor più valore delle sue colleghe “recenti”, in quanto, ai suoi tempi, l’idea di una donna maestra di