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Antoon Van Dyck

L’ARTISTA

Abbandonando la classica pittura fiamminga del Quattro-Cinquecento, ci dobbiamo spostare più avanti, varcando la soglia del XVII secolo. Antoon Van Dyck nacque giusto giusto nel 1599, inaugurando il nuovo periodo con la sua raffinata espressività artistica. Assieme a Rubens, di cui fu allievo, può definirsi il più grande pittore delle Fiandre del 1600. 

Dal cognome, intuiamo che i suoi natali furono nordici; di Anversa, per la precisione. Era figlio di un ricco mercante, il quale, quando il bambino aveva solo dieci anni, pensò bene di metterlo a bottega presso un noto artista locale, tale Van Balen. Si trattava del decano della gilda di San Luca, ossia una delle più importanti corporazioni di artigiani e artisti delle Fiandre. 

Tuttavia, la sua scalpitante voglia di dipingere lo rese presto autonomo: nel 1615, a sedici anni, si dice che avesse il suo studiolo autonomo, del tutto indipendente dalla gilda. Cosa piuttosto strana: le regole della corporazione stabilivano che non ci si potesse mettere in proprio fino al raggiungimento della maggior età (e 16 anni non bastavano!). 

Misteri a parte, il talento di Van Dyck non si fece attendere: nel 1617 era divenuto assistente dell’anziano Rubens, il quale lo influenzò con il suo stile, almeno quanto ne riconobbe il valore di rimando. Il nostro artista, infatti, è ricordato come il miglior allievo del grande pittore fiammingo, per non dire suo vero successore. 

La strada di Antoon si separò da quella di Rubens già nel 1621, quando partì per l’Inghilterra, dove si costruì un’ottima reputazione di ritrattista. Le sue doti pittoriche, di grande realismo e raffinatezza, erano molto apprezzate presso la nobiltà inglese. Ancora, però, egli non aveva voglia di rimanere stabilmente sull’isola, per cui preferì giungere in Italia, intraprendendo il tipico “viaggio di formazione” che ogni artista nordico doveva compiere nel corso della sua vita. La promessa fatta al re inglese di restare lontano solo per qualche mese non fu esattamente mantenuta… più di otto anni passarono, prima che il pittore rimettesse piede sull’isola britannica! Una motivazione valida, però, c’era: la cultura prima di tutto. Cultura, per un artista dei tempi, voleva dire apprendere dai grandi maestri italiani del recente passato. 

Prima di varcare le Alpi, Van Dyck fece una pausa in terra fiamminga, approfittando per soddisfare qualche suo conoscente, con ritratti d’eccezione. È di questo periodo l’immagine della moglie di Rubens, la signora Isabella Brant, realizzata sulla base di un bozzetto fatto anni e anni prima dal maestro. 

Abbandonata finalmente Anversa, con innumerevoli “raccomandazioni” firmate da Rubens (che aveva molte conoscenze in Italia) nella tasca della giacca, fece il suo ingresso trionfale nel Bel Paese. Mentre il predecessore, ai tempi del suo personale viaggio di formazione, non era ancora molto noto, il nome di Van Eyck era già rinomato presso l’alta società italiana. Fu così che, non appena fu arrivato a Genova, sua prima tappa, le richieste di ritratti cominciarono a fioccare da ogni dove. 

Dopo la Liguria, passò a Roma, e quindi in altre città del Centro Italia, tra cui Firenze. Lunga fu la tappa di Venezia, in cui rimase affascinato dall’arte di Tiziano: sua musa ispiratrice, seconda solo al grande Rubens. 

Percorrendo a ritroso il suo viaggio, soggiornò a Mantova, e poi di nuovo a Roma. Infine, sbarcò in Sicilia, accogliendo l’invito del Savoia, che lo aveva chiamato per farsi fare un bel ritratto (chissà come mai…!). Ed è proprio a Palermo, che ebbe l’occasione di incontrare colei che riteneva la sua vera maestra. Ancor più di Tiziano, e ancor più persino di Rubens, Sofonisba Anguissola lasciò il segno nella sensibilità dell’artista fiammingo. La conobbe quando aveva più di novant’anni, e le fece ben due ritratti di splendide fattezze. Grazie alla mano di Van Eyck, possiamo oggi ammirare tutta l’energia che ancora pervadeva il volto di quella grande pittrice cremonese del tempo…

Abbandonata la Sicilia per sfuggire alla peste, Antoon ripiegò di nuovo a Genova, e partì dall’Italia, facendo ritorno ad Anversa. Furono anni fiamminghi di grande fervore religioso, che si evince dalle opere di quel periodo. Tuttavia, il suo destino non era quello di rimanere stabile nelle Fiandre: c’era qualcuno che scalpitava per poterlo avere ai suoi servizi a corte. Si trattava del re inglese Carlo I, che sembrava aspettarlo sin dal momento in cui, anni e anni prima, Van Dyck se ne era andato dall’isola. Finalmente, accettò di prestare i suoi servigi alla corona britannica, e fu accolto con ogni onore. 

Carlo I aveva una vera passione per l’arte di questo pittore, in quanto lo riteneva l’erede diretto del suo altro prediletto, quale era stato Tiziano. Innumerevoli sono i ritratti che si fece realizzare, talvolta a cavallo, talvolta invece a caccia o nel suo palazzo

La generosità del re non si fece attendere: Van Dyck fu pienamente ricompensato per i suoi sforzi, ottenendo il titolo di “baronetto”, oltre che di un trattamento (e dei compensi) da vero membro della nobiltà inglese dell’epoca. 

Vivendo alla corte londinese, il nostro artista si immerse appieno nella sua vita aristocratica, divenendone egli stesso protagonista. Non faceva solo quadri, ma organizzava banchetti, si intratteneva con nomi d’eccezione, e girava in carrozza con servi e cavalli. Si può dire che avesse trovato la fortuna accanto al suo mecenate Carlo I. 

Così grande era la stima che quest’ultimo nutriva nei confronti di Van Dyck, che, alla morte del pittore, volle farlo seppellire nel posto d’onore destinato ai grandi personaggi della storia: la. Lì, ancora oggi, la sua anima sensibile di artista fiammingo naturalizzato inglese riposa in pace, dopo una vita breve, ma ricchissima di opere e successo.

LA SUA PITTURA

Dalle innumerevoli vicende della vita (breve, ma intensa) si intuisce già il valore artistico di questo pittore. Il miglior allievo di Rubens, se non riuscì a superare il maestro, almeno si pose al suo livello. 

Ed è proprio da Rubens che dobbiamo cominciare, per comprendere qualcosa sullo stile di Van Dyck…

Sappiamo che, già nel 1615, qualche contatto con il suo futuro insegnante vi era stato. Un paio d’anni passarono, e Antoon divenne ufficialmente collaboratore della sua bottega. Le cose tra loro funzionavano così: Rubens cercava i committenti e faceva i bozzetti, mentre Van Eyck eseguiva il dipinto vero e proprio. Se non avesse avuto una mano speciale, di certo una simile organizzazione non avrebbe funzionato! Del resto, lo stesso maestro aveva capito fin da subito il talento che si trovava davanti, e si impegnò a instradarlo sulla sua carriera.

Una volta appresi i punti chiave della pittura di Rubens, Van Dyck non si fermò: anzi, si impegnò per acquisire una tecnica unica, distinta da quella dell’altro fiammingo. Rispetto al maestro, il suo stile divenne meno scultoreo, e dalle coloriture “liriche”, più raffinate. Merito dell’influenza italiana, che lo catturò molto presto.

Giunto in Italia, non poté che essere attratto dalla pittura di Tiziano, con il suo cromatismo vivace, ma anche intimo e profondo.

Se da Rubens e da Tiziano riprese i colori, l’attenzione ai dettagli era un lascito degli albori dell’arte dei Fiamminghi. Osservate certi pizzi o certe minuziose bordature degli abiti, e rimarrete incantati dalla loro perfezione. 

Ma parliamo dei ritratti: il suo genere prediletto, che domina decisamente sulle opere a carattere religioso. I ritratti di Van Eyck, riprendendo il modello caro a Tiziano e Rubens dello “state portrait”, sono effigi ufficiali, che poco hanno di introspettivo, e molto di senso di importanza. La loro funzione, infatti, era quella di rappresentare l’elevato ceto sociale del protagonista, nonché la sua raffinatezza e il rispetto di cui godeva. 

I primi ritratti degni di nota nacquero a Genova, per poi continuare durante tutto il suo viaggio in Italia, culminando nell’alta società fiamminga e inglese. Proprio a Londra, egli divenne “ritrattista di Corte”, trovandosi a soddisfare i desideri di tutta la migliore nobiltà inglese. Emblematiche in questo senso sono le rappresentazioni di Carlo I, che variano dal ritratto ufficiale, alle scene quasi bucoliche che lo immortalano a caccia, nel verde della campagna inglese. 

LE OPERE

RITRATTO DEL CARDINALE GUIDO BENTIVOGLIO

Il soggetto dell’opera dice molto della terra natale del suo autore: il cardinale Bentivoglio aveva un profondo legame con le Fiandre, in quanto ne aveva narrate le guerre in un celebre resoconto. Van Dyck la realizzò ai tempi del suo Viaggio in Italia; per la precisione quando si trovava a Roma, ed ebbe occasione di incontrare il suo protagonista. 

Fin da subito grandissimo fu il successo di questo ritratto… c’è chi diceva che non ne avrebbe mai potuto fare uno più bello. In effetti, se si guarda alle scelte cromatiche, è splendida l’armonia visiva data dal rosso della veste, che rimbalza sul panneggio di sfondo, illuminandosi di bianco in entrambi i casi. In questo modo, la tinta cremisi dell’abito cardinalizio (dal colore molto acceso, ma inevitabile da includere) si integra benissimo nella tela, senza risultare troppo forte. Piccoli colpi di genio di un artista cresciuto sulle spalle di Rubens e Tiziano.

“Straordinaria sinfonia di rossi” è uno degli appellativi di cui gode la tela. Come già detto, l’occhio dell’osservatore non può trattenersi dal rimanere affascinato dalle sfumature intense, ma armoniche, di quel panneggio avvolto nella penombra. Il colore, però, non è la sola componente di rilievo. Guardate alle fattezze nobili ed eleganti dell’effigiato. E guardate alle pennellate, variabili, a seconda dell’oggetto che sono chiamate a raffigurare. Si fanno rapide e pastose tra le pieghe della veste, per poi sfociare nelle minuzie candide dei pizzi. C’è del tizianesco, del fiammingo, e il Rubens che campeggia in sordina. Il tutto racchiuso in una scenografia ombrosa, che, con quella tenda rosso scuro, pare davvero il palcoscenico di un teatro. 

Ritratto del Cardinale Bentivoglio

 RITRATTO DI SOFONISBA ANGUISSOLA

Era l’estate del 1624. Un’estate caldissima, a quanto dicono, e segnata dal dilagare della peste in tutta la Sicilia. Tuttavia, il contesto sfavorevole non impedì l’avvenire di un incontro speciale, che si svolse in una stanza nobiliare dal gusto barocco. Palermo, a quei tempi, era la dimora di una grande pittrice: Sofonisba Anguissola. Noto era il suo nome in Europa, a tal punto da essere giunto fino alle orecchie fiamminghe di Van Dyck. Questi, infatti, aveva voluto spingersi fino al profondo del Mediterraneo, per incontrare lei… per incontrare la signora dell’arte del ‘500.

Malgrado avesse 92 anni, Sofonisba doveva ancora apparire molto fiera, in tutta la sua aura mistica di pittrice d’eccezione. Fu in quell’occasione che diede al giovane artista preziosi consigli pittorici, di cui egli non mancò di fare tesoro. Sarà lui stesso a dire di aver imparato da Sofonisba più di quanto potesse aver appreso da altri.

Da quell’incontro fondamentale per il pittore fiammingo, ne nacquero due ritratti. Due piccoli capolavori, che conservano eternamente la memoria e l’aspetto della prima grande donna dell’arte, quale era alla fine della sua vita. In quello in questione, emerge tanto il talento ritrattistico dell’autore, quanto le fattezze consunte, ma ancora vitali, della protagonista. Riprendendo lo stile raffinato e sottile di Sofonisba, Van Dyck la immortalò in modo analogo a quanto lei stessa era solita fare. Sfondo scuro e indefinito; posa fiamminga di tre quarti; e un’espressività assai vicina al reale.

Ritratto di Sofonisba Anguissola

RITRATTO DI ELENA GRIMALDI CATTANEO

Ecco a voi una giovane aristocratica della Genova di inizio Seicento. Si tratta di Elena Grimaldi Cattaneo, membra di una famiglia che, a quanto pare, era già nota all’artista dai tempi di Anversa. Come spesso avveniva per i ricchi commercianti italiani, questi erano soliti aprire delle “filiali” a nord, approfittando dei fiorenti mercati fiamminghi. Tali Cattaneo erano commercianti tessili, esattamente come lo erano i Van Dyck. Non è inverosimile che ci fossero stati contatti passati…

Contatti, che si rivelarono piuttosto utili all’artista appena giunto in Italia. Forse, è grazie a tali conoscenze, se trovò subito favorito e ben inserito nell’ambiente genovese del tempo, così da assicurarsi vitto, alloggio e committenze. A riconfermare la sua familiarità con l’aristocrazia di Genova, c’è da dire che passò proprio lì la maggior parte del suo tour italiano: un appoggio sicuro, su cui fare sempre affidamento in caso di problemi…

Ma torniamo alla protagonista, la signora Elena. La vediamo ritratta a figura intera, adombrata da un bel parasole scarlatto. Per realizzare il dipinto, non dovete pensare che la povera effigiata sia stata costretta a rimanere in posa chissà per quante ore (se non giorni). Come capiamo dal bozzetto dell’opera, Van Dyck era solito realizzare “in presenza” solo uno schizzo dei lineamenti del viso, per poi fare tutto successivamente, nel suo studio. In questo modo, si poteva dedicare a curare ogni dettaglio, avvalendosi della collaborazione di manichini che indossavano (senza lamentarsi) gli splendidi abiti che amava raffigurare.

Uno spunto per il ritratto in questione viene certo dalla Brigida Spinola Doria, di mano rubensiana. Se li confrontate, noterete l’ampio colletto vaporoso spiccare in entrambi. Tuttavia, Rubens non fu il solo ispiratore; accanto dobbiamo ricordare la Lavinia di Tiziano, la cui posa sembra proprio la stessa.

Raccogliendo tali due importanti contributi, ne venne fuori la splendida Elena Grimaldi Cattaneo, abbigliata con un abito nero alla moda spagnola(in voga nella Genova di allora). Alle sue spalle, c’è un curioso servitore nero, che le regge quel parasole già citato. Parasole emblematico, che accende a contrasto il pallore del volto, armonizzando tutti i toni cromatici.

Ma passiamo nel retroscena, dove una quinta architettonica di colonne e capitelli corinzi dona maestosità e importanza alla protagonista. Potrebbe essere la dea di un tempio greco… oppure la regina dei possedimenti dei Cattaneo, che si intravvedono sulla sinistra.

L’ultima occhiata è da dedicare a ciò che la donna tiene stretto in mano: un fiorellino d’arancio. Di solito è simbolo di matrimonio; eppure, Elena, a quei tempi, aveva già tanto di sposo e bambini! Dunque, la presenza di quei bocciolini rimane ancora un mistero…

Ritratto di Elena Grimaldi Cattaneo

RITRATTO DI DAMA (BRERA)

L’ispirazione di quest’opera viene direttamente dal ritratto di Maria de’ Medici in abiti da lutto, realizzata qualche tempo prima da Rubens. Qui, però, abbiamo una dama fiamminga, membra della famiglia Croy di Bruxelles. 

Malgrado il contesto funebre, esplicitato nel nero intenso della veste, si tratta di un’immagine affascinante, di raffinatezza sublime. La tenda dorata, che avvolge la protagonista, accende di colore la cupezza dell’abito: pare di essere davanti a una pièce di teatro. Quella che era una tragedia reale, si fa tragedia da palcoscenico, acquisendo un carattere spettacolare. Non servono luci aggiuntive a illuminare la scena: l’oro caldo si avvale della collaborazione di pizzi e merletti, che accendono di vita maniche e decolleté. Il tutto, poi, è completato da minuziosi braccialetti, collane, e una pesante croce ingioiellata, su cui rimbalzano i riflessi luccicanti. Un capolavoro di dettaglio fiammingo, spunti rubensiani ed eleganza tipica della mano di Van Dyck.

Ritratto di dama

AUTORITRATTO CON GIRASOLE

Con questo bel fiore dorato, Van Dyck inaugura la tradizione dei girasoli nella pittura, aprendo la strada al conterraneo Vincent Van Gogh (e non a lui solo!). Certo, qui siamo qualche secolo prima, in un contesto storico molto diverso, e con ideali pittorici altrettanto differenti. Nulla toglie, però, che il fascino del giallo dei petali dei girasoli sia una costante in entrambi gli artisti…

Non è questo il tempo di parlare del Post-Impressionismo vangoghiano, bensì del girasole di Van Dick, che gli fa compagnia nel suo splendido autoritratto. 

Cominciamo, allora, con il collocarlo temporalmente intorno al 1532, quando ormai l’artista si trovava stabilmente nella corte di re Carlo I d’Inghilterra. Vale la pena ricordare quale fosse il suo tenore di vita di quel periodo, in quanto dice molto sul significato dell’opera. Erano tempi più che d’oro per il pittore, che era entrato nella cerchia aristocratica del sovrano britannico, immergendosene da capo a piedi. Si racconta che, con il suo bel titoletto di sir, Van Dyck fosse diventato un nobile a tutti gli effetti: gli mancava solo il sangue blu! Aveva vesti sfarzose, carrozza con cavalli, e innumerevoli servitori. Si dedicava alla pittura, almeno tanto quanto alle conversazioni nei salotti, in compagnia della migliore società londinese. Insomma, se la passava bene, accolto con tutti gli onori in qualità di “ritrattista di corte” presso il suo committente reale, perdutamente appassionato dei suoi dipinti.

La sua nuova vita aristocratica si nota subito guardando al nostro autoritratto. L’abito lussuoso la dice lunga sulle sue abitudini di vita, per non parlare di quella catenella d’oro. Se osservate con attenzione, sembrerà anche a voi che Van Dyck voglia metterla ben in mostra, ostentandola con orgoglio. Come mai? Ebbene, si tratta di una preziosa collana d’oro, che gli fu donata da Carlo I, come simbolo del suo nuovo status altolocato. Fin dal suo ritorno in Inghilterra, il suo desiderio sembrava essere quello di avere un bel titolo nobiliare… titolo, che non tardò ad arrivare. Divenne baronetto, e membro dell’esclusivissimo Ordine del Bagno. Ora si capisce come mai questo pittore abbia preferito ritrarsi come un principe, piuttosto che con in mano tavolozza e pennelli!

Rimane da capire come mai si trovi in compagnia del meraviglioso fiore d’oro. Ancor più, verrebbe da chiedersi perché abbia voluto dipingere il girasole enorme, rendendolo protagonista della scena almeno quanto la sua stessa effigie. 

Per rispondere, non possiamo avvalerci delle passate simbologie: il girasole, prima di allora, non era mai comparso in nessun quadro. Infatti, si tratta di una varietà botanica non europea, ma che fu importata da noi dall’America, come dono per il re di Spagna. Oltreoceano, nell’Impero Inca, esso aveva il significato di sole e di regalità; si ritenne che fosse un regalo adeguato al sovrano ispanico. Malgrado questa bella storia, non è a questa che ci dobbiamo affidare per interpretare il nostro autoritratto…

Qui, bisogna pensare a una caratteristica del comportamento del girasole. Ossia il cosiddetto “eliotropismo”. Si tratta della sua propensione a essere sempre rivolto in direzione del sole, inseguendolo da mattino a sera. Ebbene, dobbiamo prendere questo eliotropismo, e spostarlo nel contesto di Van Dyck alla corte inglese. 

Il pittore, al cospetto di Carlo I, si fa girasole che si rivolge e segue ovunque il corso del sovrano. Il re è rappresentato dal sole: luce e fonte di vita per il fiore, almeno quanto per l’artista. 

Riordinando gli spunti, possiamo ora giustificare la curiosa presenza del girasole nel ritratto, riconoscendo in lui lo stesso Van Dyck. Da singolo autoritratto, otteniamo un doppio ritratto! Un doppio ritratto con cui, nel suo significato più profondo, egli voleva esprimere l’immensa gratitudine nei confronti di Carlo I, che lo illuminava quotidianamente di onori e ricchezza…

Autoritratto con girasole

MADONNA DEL ROSARIO

Quest’opera è la più importante commissione pubblica che fu realizzata da van Dyck durante il suo viaggio in Italia. Ancora oggi, la possiamo trovare nella sua collocazione originaria: l’Oratorio del Rosario di San Domenico a Palermo

Dal luogo suddetto, capiamo che risale al periodo in cui l’artista si era recato in Sicilia, intorno al 1624. Tuttavia, non fu realizzata completamente laggiù: tanto contagiosa e pericolosa era la peste, che fu necessario scappare dall’isola, e riparare a Genova. 

La storia della pala nasce da un miracolo. In quel periodo, furono scoperte sul Monte Pellegrino le spoglie di Santa Rosalia: un’eremita che già era stata oggetto di passata venerazione. Poco dopo il ritrovamento, l’epidemia di peste cominciò a diminuire, fino a scomparire completamente: miracolo! Almeno questa era l’idea del popolo locale (notoriamente molto sensibile alle credenze mistiche), che portò al diffondersi di un ferventissimo culto di questa santa. 

Con la nuova Rosalia quale grande oggetto di venerazione, era necessario provvedere a rinfarcire la sua iconografia (prima piuttosto scarsa), realizzando nuove opere su di lei. Un grande contributo in questo senso lo diede il nostro Van Dyck, con una serie di opere che la raffiguravano con i suoi neonati attributi. Nelle sue tele, la vediamo con i capelli biondi, il saio francescano (che ricorda l’eremitaggio) e il teschio (rimando all’aver sconfitto la peste): tutti simboli che la accompagneranno nelle raffigurazioni a venire. 

Tra i dipinti commissionati al pittore fiammingo, spicca questa pala per l’Oratorio del Rosario, che pareva essere manchevole di un’immagine della nuova santa di moda…

Ottenuto l’incarico, Van Dyck se ne andò presto a Genova, dove eseguì quasi tutto il suo capolavoro. 

Ed ecco qui il risultato: una Madonna che porge dall’alto il rosario a san Domenico, riprendendo la tipica iconografia mariana. Ai suoi piedi, ci sono i vari santi richiesti esplicitamente dai committenti, tra i quali si contano cinque sante legate a Palermo e alla Sicilia. L’immancabile figura, però, è Santa Rosalia, che vediamo inginocchiata a sinistra, di spalle, riconoscibile per il saio e i suoi lunghi capelli biondi. Giusto accanto a lei, c’è un bimbo che scappa tappandosi il naso, guardando in direzione di un teschio: è il simbolo del fetore della peste, che fu scacciata dall’intercessione della santa. 

Se analizziamo la composizione della scena, possiamo percepire un che di familiare con un’opera di Rubens: la prima versione della “Madonna della Valicella”. Molto simile è l’arco al centro (per non dire uguale), così come quella santa con in mano il rametto di ulivo, in cui sembra di rivedere la santa Domitilla del dipinto del maestro. 

Tuttavia, la mano di Van Dyck seppe reinventare il collega fiammingo, aggiornando la sua lezione con gli influssi veneziani a lui tanto cari. Il colorismo vivace, il san Domenico e il gesto della Vergine, sono particolari decisamente tizianeschi. Ed ecco che, in quella scena affollata di santi, puttini e luci contrastanti, si mescolano abilmente i due grandi predecessori, Rubens e Tiziano, lasciando un’impronta indelebile nel panorama palermitano. 

Madonna con Bambino

MADONNA CON BAMBINO E SANT’ANTONIO DA PADOVA (BRERA)

Se la confrontiamo con la sorella che le sta accanto nella sua dimora attuale braidense (ossia con il Ritratto di Dama sopra descritto), ci sembrerà di aver cambiato artista. Eppure, si tratta della stessa mano, anche se con influenze assai diverse.

Mentre la donna in nero si ispirava alla ritrattistica fiamminga e al maestro Rubens, qui spicca il rimando a un altro grande nome. Parliamo di Tiziano: quel grande pittore veneziano, che lasciò affascinato Van Dyck, non appena ebbe messo piede a Venezia. 

Il soggetto religioso della Madonna con il Bambino è qui declinato in uno stile che ha tutto il sapore della colorismo tizianesco. I colori sono vividi, e i panneggi definiti, con riflessi luministici molto curati. Guardando i volti, si rimane incantati dalla loro dolcezza, espressa in un naturalismo grandioso. Delicatissimo è il Bambinello che sfiora il Sant’Antonio con la sua manina; un po’ stralunata la Vergine, forse, ma assai vicina ai modelli di Tiziano. 

E così, con quest’opera scambiata (letteralmente) con il Louvre un paio di secoli fa, Brera ci offre una duplice visione sull’artista: prima avete scoperto il Van Dyck ritrattista rubensiano, e ora ammirate i suoi soggetti religiosi di spirito veneziano. 

Madonna con Bambino e Sant’Antonio

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