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Un tramonto color polpa di fico

Acquerelli fichi frutta

Era quella la sera più calda di tutta l’estate. 

Così, almeno, non si stancavano mai di ripetere a ogni telegiornale che facesse capolino alla TV. 

“State in casa”, dicevano.

“Uscite solo se necessario”, proseguivano.

“Non mettete il naso fuori dalla porta durante le ore più calde”, proseguivano ancora. E con un fare a metà tra il preoccupato e il divertito. In fondo in fondo, e lo sapevano bene anche i giornalisti ( o giornalai, come li definiva il Babbo), i servizi sul caldo erano il tappabuchi dei notiziari agostani. 

Quando non c’era nient’altro di più interessante di cui parlare, salvo argomenti troppo “caldi” per essere trattati in modo approfondito (e ce n’erano di “caldi” davvero allora…), si passava al caldo.

Ecco che il caldo torrido diventava l’incipit di ogni telegiornale quotidiano. Ecco che compariva in prima pagina a ogni ora del giorno: mattino, pranzo, e sera. Anche la notte (quando l’aria era un po’ meno calda) non ci si privava mai del piacere di ricordare alla gente quanto facesse caldo. 

I rischi per certe persone c’erano davvero. Tuttavia, le regole d’oro di bere tanto, non andare a comprare il latte alle due del pomeriggio, ed evitare grigliate miste di cinghiale a pranzo, erano piuttosto risapute. Non a caso, ogni anno erano sempre le stesse…

La Risolartista, da brava cittadina lacustre villeggiante in una delle regioni “più calde” della penisola (ditemi voi quali erano quelle “fresche”), seguiva (quasi) alla lettera i consigli dei giornalai del TG.

Se ne stava in casa a sonnecchiare tranquilla tutta la notte, si alzava presto al mattino, e finiva la spesa entro le dieci. Poi, un po’ di acquerelli e cappuccino a un tavolino del bar, e per le unici era al sicuro tra le mura domestiche. Specifichiamo: il tavolino del bar era persino all’ombra, così si evitavano anche i raggi UV diretti. E anche i dermatologi erano soddisfatti.

Pranzo e pomeriggio trascorrevano al fresco, tra cucina, cameretta e soggiorno.

Finché non giungeva la sera.

La sera, ossia le sei passate, si poteva considerare al di fuori dalle cosiddette “ore più calde”. Dunque, mettere il naso fuori di casa era ammesso anche dai giornalai. Tanto più, visto che quello che si doveva fare era una commissione più che necessaria.

La Risolartista, alle sei di sera del giorno più caldo di agosto, doveva andare ad assaporare i colori del tramonto.

Era un dovere artistico di massima importanza. E doveva essere fatto per bene. 

Tutte le sere precedenti (già parte integrante del “periodo più infuocato dell’anno”), il Babbo Antonello aveva continuato a citare un certo “tramonto africano”. Così definiva il calar del sole in quelle sere roventi, non molto distante da ciò che doveva avvenire in piena savana. 

Il tramonto africano, da quel che la Risolartista aveva capito dalla descrizione, era un tramonto dai colori intensi, brillanti e decisamente caldi. Colori, che in fondo, rientravano nella sua palette cromatica preferita. 

Se le sere precedenti si era persa ogni volta quello spettacolo, quel giorno voleva vederlo. Vederlo davvero, con i suoi fanali blu dietro gli occhialetti rossi. Vederlo dalla riva di Monte del Lago, proprio a due passi dal pontile. Quella sarebbe stata la posizione perfetta per ammirare i colori del tramonto africano in tutto il loro (rovente) splendore.

In realtà, c’era anche un altro motivo (molto gustoso) per ritenere necessaria quell’uscita serale. 

Giusto il giorno prima, il Cane Leccino le aveva fatto sapere che i fichi di Monte del Lago erano quasi maturi. 

In quei giorni, il Bassetto aveva pensato bene di rifugiarsi al fresco nello scantinato del frantoio (furbo, lui!). Le sue necessarie (davvero) passeggiatine quotidiane avevano luogo di conseguenza lungo la riva del suddetto promontorio roccioso. 

Avanti e indietro, indietro e avanti sotto gli immensi alberi di fichi che popolavano il limitare del Monte. Così lui passava le ore più fresche del giorno, come, del resto, facevano anche gli altri colleghi cani con relativi padroni. 

In tali occasioni, non aveva mancato di osservare attentamente la maturazione dei frutti, che, con il caldo africano degli ultimi giorni, era proceduta a ritmo ben sostenuto. 

Da Cane Bassetto che era, non poteva sperare di toccarne con zampa il grado di morbidezza; tuttavia, i padroni a spasso facevano tale lavoro per lui. Li scrutava attento mentre si avvicinavano all’albero, alla ricerca di qualche esemplare maturo. 

I primi tentativi che aveva visto erano stati tutti vani: scoraggiati, i padroni si allontanavano presto, commentando che c’era poco da sperare di mangiare. 

Finalmente, il giorno prima dell’uscita della Risolartista, un fico era stato staccato, assaggiato, e ripetutamente complimentato dal relativo assaggiatore. Dunque, i fichi erano ormai in pronta maturazione! 

Certo, bisognava trovare la pianta giusta: era pieno di alberi con frutti così indietro che probabilmente non sarebbero mai diventati commestibili. Questi erano utili come deterrente per i creduloni, che si stancavano presto della ricerca. 

Leccino, da cane molto attento, aveva istruito bene l’amica artista al riguardo. Se non trovava nulla di commestibile sulle prime piante, non si doveva affatto scoraggiare. Quelle piante erano messe lì apposta per proteggere i fichi succosi dai curiosi turisti stranieri. 

Il turista medio, poco esperto del luogo, se tentava la prima pianta con scarso successo, desisteva già in partenza. La pianta fruttifera neppure più la considerava.

Il turista medio un po’ più agguerrito, invece, poteva forse avvicinarsi alla prima e anche alla seconda, ma mai alla terza. Troppe erano le energie sprecate per fare lo sforzo di alzare il braccio e sollevare le foglie. Troppo era il caldo che doveva sopportare per abbandonare il suo sentierino ombroso, e sfidare il pieno sole. Un paio di tentativi erano sostenibili, ma un terzo (e senza risultato) era fuori discussione. Meglio rinunciare al fico, e andarsi a bere qualcosa al bar vicino.

Dunque, se la Risolartista voleva conquistare il suo fico dalla polpa vermiglia, avrebbe dovuto sopportare anche il caldo del terzo tentativo. Dopo quello, però, sarebbe stata adeguatamente ricompensata.

Con questi consigli d’oro nella testa (ben più utili delle regole d’oro di sopravvivenza dei giornalai del TG), spinse la biciclettina fragolosa fino alla riva di Monte del Lago. Era determinata a dipingere la sua sera più calda dell’anno con il colore della polpa dei fichi. E con il loro dolcissimo sapore, in aggiunta. Sapore da gustare di fronte al suo desiderato “tramonto africano”. Chissà se sarebbe riuscita a tradurre tutto in realtà…

Leccino, all’ultimo, aveva desistito dal farle compagnia. Troppo caldo per la sua pelliccia. Mentre l’artista poteva concedersi il lusso di pantaloncini corti e canottiera, lui, il suo pelo maculato, non poteva certo lasciarlo nell’armadio! Si sarebbe accontentato del racconto dell’avventure, e, magari, di un fico (anche piccolino), che l’amica gli avrebbe portato in un momento più fresco. 

Motivo per cui, quando la biciclettina fragolosa si fermò al Monte, il silenzio della sera più calda dell’anno dominava sul Trasimeno.

Eccolo lì, il suo lago della sera più calda dell’anno. Eccolo lì, il suo tanto sospirato tramonto africano, che si scioglieva a poco a poco nello specchio calmo. Non un’onda quella sera, nemmeno un alito di vento a disturbare la quiete.

Di turisti vacanzieri al ritorno dalle spiagge non se ne vedevano. Due erano le alternative di spiegazione: o erano troppo lessati per avere le forze di alzarsi così presto (anche se erano quasi le sette) dall’asciugamano, o erano già rifugiati al fresco da tempo. 

La Risolartista era proprio sola.

Strano il non vedere nessuno a godersi con lei i colori di quel tramonto africano. Neanche cento metri più avanti, svoltata la roccia, c’era il ben noto Bar Laguna: meta pressoché quotidiana della gioventù lacustre amante degli aperitivi. In ogni serata “normale”, decine e decine di macchine, biciclette e Vespe non facevano altro che arrivare, parcheggiarsi, e ripartire dopo un cocktail in riva al lago. Di solito, quella stradina del Monte era molto affollata. Che fossero tutti già là, al Bar Laguna, a sorseggiare il loro Campari con vista sul tramonto? Chissà…

L’immagine dei divanetti affollati del locale, però, era poco credibile. Essendo all’aperto, non potevano godere dell’aria condizionata. E, senza aria condizionata ininterrottamente funzionante sopra la testa, solo la Risolartista aveva il coraggio di fermarsi in contemplazione.

In contemplazione, davanti a quel tramonto africano, lo era davvero. E ne valeva la pena: tavolozze di orizzonte così erano uno spettacolo raro. Raro, e per i pochi animi pittoreschi che si erano avventurati nel caldo di Lucifero (l’anticiclone di quell’anno) pur di gustarne i colori che aveva preparato per loro. In fondo, per quanto mortalmente rovente potesse essere, Lucifero era stato un bravo pittore di tramonti!

Ora che aveva gli occhi pieni di rosso vermiglio e arancio rosato, l’artista voleva procedere alla soddisfazione del suo secondo desiderio.

I fichi.

Seguendo diligentemente i consigli dell’amico cane, dopo aver toccato i frutti dei primi due alberi che comparivano al ciglio della stradina, non si perse d’animo. Se quelli erano più simili a delle piccole rocce, i prossimi sarebbero stati maturi. Doveva solo perseverare, sopportando ancora qualche metro di caldo e pieno sole.

Furono cinque minuti di caldo e pieno sole piuttosto caldi, e piuttosto in pieno sole. Il rischio di squagliarsi era più che presagito. Tuttavia, il trovare dei fichi morbidi, che cedevano al tocco delle dita imperlate di sudore, dava la forza per continuare.

E la raccolta, minuto dopo minuto, continuava.

Non fosse stato per l’aver esaurito le risorse idriche in corpo e il sacchettino in cui metterli, la raccolta dei fichi non avrebbe avuto breve fine. Quando ne ebbe staccati quasi una ventina, però, decise di rifugiarsi in una pozza di ombra abbandonando il pieno sole rovente.

Senza volerlo, aveva trovato un posticino panoramico perfetto, da cui poter gustare il suo primo fico con vista sul tramonto africano. 

Non poteva attendere di tornare a casa: il suo spiritello pittoresco fremeva dalla voglia di vedere le tinte dell’interno, e il suo palato chiamava il sapore zuccherino.

Scelto l’esemplare più maturo e dalla buccia brillante, lo spezzò delicatamente a metà.

Lo spettacolo della polpa fu improvvisamente liberato.

Uno spettacolo di colore, che sembrava riflettere ciò che avveniva all’orizzonte. Il sole del tramonto africano, vermiglio e a tratti spruzzato d’arancio, era tale e quale all’interno del suo fico. Tanto più, visto che tutt’attorno il resto del cielo era di una sfumatura bianco latte, al pari del contorno compatto della polpa.

Assaggiarlo pareva un peccato. Rompere quell’incanto cromatico pareva un peccato. Tuttavia, ne aveva un sacchettino pieno nel cestino della bicicletta. Se voleva continuare a vedere il tramonto riflesso nella polpa di fico, doveva solo allungare la mano, e far sbocciare un altro frutto con le sue mani d’artista.

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