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Al di là della parete. “Mimesis”: i graffiti metafisici di Doze Green

Dalla street art a una filosofica riflessione sull’infinito

È nato Jeff, si è firmato Doze sui muri delle strade del Bronx, ed è oggi un filosofo contemporaneo. Questa è l’evoluzione, biografica quanto artistica, di Jeff Green: protagonista della scena newyorkese degli anni Ottanta. Cresciuto nei bassifondi di periferia, dove la cultura hip hop andava per la maggiore, dopo l’arrivo in California ha incanalato la sua vena creativa dalla parete alla tela. Ed è così che il mondo dei B-Boys (legati allo stile hip hop), fatto di musica, graffiti e danza, gli è diventato stretto. Senza mai dimenticarlo, Doze Green ha cominciato a guardare oltre, tanto indietro, quanto avanti nel tempo, tanto nell’infinitamente piccolo, quanto nell’intero universo. Ne è scaturita una filosofia di pensiero che mette insieme miti e presenze primordiali (divinità tribali e classiche), con mostri immaginari e inquietudini tutte contemporanee. Il tutto a ritmo di danza. Una danza, l’hip hop, che scorre nelle sue vene, vitale come l’ossigeno.

Mimesis: la nuova mostra sulle pareti milanesi

Potrebbe suonare strano, ma Doze Green, con Milano, ha sviluppato un legame speciale. Legame che, presso la Galleria Patricia Armocida, ha deciso di confermare esponendo in città le sue opere inedite: il culmine del suo percorso artistico-riflessivo. Il lettering che ha segnato tutta la sua giovinezza si è evoluto in un linguaggio ben più vario e complesso. Un linguaggio che scava nel passato, raccogliendo elementi tribali, miti antichi e creature leggendarie, legandoli agli immaginari più contemporanei. Il tutto per esprimere la sua personale visione della nostra umanità: un microcosmo che fa fatica a riconoscersi in quel “tutto” universale che sembra non aver confini. Quando pensiamo a noi stessi, cercando di trovare  il nostro posto in un mondo che va dai buchi neri (lontani anni luce da noi) all’infinitamente microscopico degli atomi della chimica, il risultato è questo. È una commistione di esseri senza tempo, che non hanno una precisa identità, né appartenenza di categoria. 

Il nuovo linguaggio di Doze Green

E’ ormai chiaro che  una visione chiara e univoca sulla nostra microcosmica umanità non è possibile (almeno secondo l’artista). Diventa allora interessante guardare più nel dettaglio quel miscuglio di idee che dà forma all’esito della sua finale (per ora) riflessione. 

Le 10 tele e i 14 disegni in mostra colpiscono subito per il gusto cubista e la disposizione delle figure: corpi semi-umani, intrecciati come fossero parte di una danza misteriosa. In effetti, per uno che, l’hip-hop, ce l’ha sempre avuto nel sangue, è impossibile non rievocarlo nelle sue opere. Se l’uomo esiste, deve senz’altro danzare. Ma è un uomo poco terreno: è piuttosto mitologico, arcaico, spesso dai connotati di uccello. Quest’ultimo animale è un ulteriore cifra che lo accompagna da anni: le sue “bird faces” esprimono un identità tra l’animalesco e il divino, e ricorrono numerose nei suo graffiti passati. 

Infine, c’è un che di oscuro, di inquietante, in certi mostriciattoli che si alternano alla presunta umanità. Si tratta di ciò che è sepolto nell’animo di Doze Green, e che, in fondo, non è poi diverso dai nostri personali timori quotidiani. L’artista si fa filosofo, e rievoca a passo di hip-hop condizioni ed esperienze che accomunano noi tutti: una danza perpetua, in cui non si sa che evoluzione ci sarà. Rimane solo da seguirla. 

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