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Il realismo senza ornato che fece da ponte tra Gotico e Rinascimento. La “Crocifissione” di Masaccio al Museo Diocesano

In ricordo di un grande donatore

Il primo maggio di quest’anno, Alberto Crespi avrebbe soffiato cento candeline sulla torta. In ricordo di questo raffinato giurista milanese, scomparso nel 2022, il Museo Diocesano di Milano è riuscito a conquistare (temporaneamente) il “fondo oro per eccellenza” della storia dell’arte. Così è definita la “Crocifissione” di Masaccio: un’opera che, malgrado abbia uno sfondo tutto dorato, segna il passaggio al realismo rinascimentale. 

Il motivo di tale soggetto, a cui il museo ha dedicato un intero percorso espositivo, è intrinsecamente legato al citato personaggio. Alberto Crespi, oltre che erudito di Legge, fu grande collezionista, appassionato di opere tardo-gotiche del panorama italiano. La sua raccolta, popolata da fondi d’oro di varia provenienza, da Daddi, allo Starnina, già nel 1999 (prima ancora dell’apertura del Museo) fu donata alla Diocesi, perché tutti potessero ammirarne il valore. Ancora oggi, in una sala a loro dedicata, queste tavole scintillano sotto le luci calde delle lampade, diffondendo i loro riflessi preziosi. 

La Crocifissione, un tempo cimasa del “Polittico del Carmine” di Pisa

Al termine del percorso introduttivo della mostra, in cui si susseguono citazioni vasariane e contestualizzazioni necessarie, sarete pronti a porvi al cospetto dell’opera. Tuttavia, il punto di vista che un osservatore come voi si trova offerto non è quello originale. E questo potrebbe far sorgere qualche dubbio sulla vera capacità prospettica e rappresentativa dell’artista. Masaccio è noto per il suo stile puro, senza quegli “ornati” ancora brulicanti nelle tavole dei suoi concittadini del Gotico Internazionale (pensate a Gentile da Fabriano), ma estremamente realistico. Realistico: vero, plastico, con una resa della prospettiva ineguagliabile al suo tempo. Eppure, lì, in quel fondo oro di dimensioni ridotte, pare che si fosse dimenticato di dipingere il collo. Cristo crocifisso, immortalato in modo frontale (qualcosa di mai fatto prima di allora), ha in capo esanime direttamente appoggiato sul busto. E anche gli spinghi, a dire il vero, sembrano più corti del normale. Errore dell’artista, forse dovuto alla sua giovane età (aveva 26 anni)? 

Certo che no. Semplicemente: una diversa posizione di origine, con conseguente visuale. La “Crocifissione”, commissionata nel 1426 dal banchiere Per Giuliano di Colini degli Scarsi da San Giusto (perdonate la lunghezza del nome), era inizialmente destinata a fare da cimasa (tavola in cima) al Polittico del Carmine di Pisa. Dunque, l’osservatore di allora l’avrebbe ammirata circa cinque metri più in basso di ciò che avviene a voi oggi. Da quel punto di vista, lo scorcio prospettico sarebbe stato ineccepibile. 

Crocifissione, Masaccio

Una ricomposizione impossibile

Constatata la posizione i riduttiva che l’opera si vede relegata nell’essere all’altezza degli occhi, verrebbe il desiderio di riassemblare integramente il polittico. Purtroppo però, si tratta di un ideale ancora oggi materialmente impossibile. Il complesso, nel corso dei secoli, fu smembrato, e le sue componente si dispersero per ogni dove. Una buona parte di esse è ancora perduta; altre, invece, sono accasate in vari musei: dalla National Gallery, a Pisa, fino ad arrivare oltreoceano, in America. E, poi, c’è la “Crocifissione”, acquistata inconsapevolmente (la si credeva di pittore ignoto) a inizio ‘900 dal Museo di Capodimonte. Oggi in prestito al Diocesano di Milano.

Un dolore che ci chiama e ci intriga

Trovarsi davanti alla “Crocifissione” di Masaccio, al “fondo oro per eccellenza”, fa un effetto particolare. È una di quelle opere che emanano la loro aura (citando Benjamin), chiamando l’osservatore a rispondere al loro invito. Un invito a riflettere su ciò che recano raffigurato sulla loro superficie. 

Qui, su uno sfondo dorato che al posto di appiattire dà profondità alla scena, sorge il dolore. La Croce, piantata su un brandello di Golgota appena delineato, è circondata da tre figure. Sono le tre figure della tradizione evangelica: la Madonna, la Maddalena, e san Giovanni Evangelista. Ciascuna ha un modo tutto proprio di esprimere lo stesso sentimento. La Madre stritola le dita le une contro le altre, il discepolo non riesce neppure ad alzare lo sguardo. E, poi, c’è lei, quasi fosse il perno attorno a cui gira tutta la composizione. La Maddalena: così immersa nel dolore, da trasmetterlo anche di spalle. Un dolore a cui ogni osservatore è chiamato a rispondere, facendosi segnare nell’animo da quest’opera così viva e umana.

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