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Cercasi risposte

“Who is Who-dimensional?” alla Galleria Giò Marconi

Who the Baer. Un orsett* in cerca di identità

Una delle poche certezze di questo personaggio è la sua genesi artistica. Durante il primo lockdown del 2020, quando tutti ci trovavamo rinchiusi nelle nostre case, l’artista britannico Simon Fujiwara ebbe un’idea. Un’idea che traduceva il sentimento di disperazione, universalmente condiviso, di quell’assurda realtà così irreale, in cui neppure si poteva più uscire a fare una passeggiata. L’unico contatto con il mondo esterno che ancora restava in piedi era quello dei media, della televisione, di Internet. Un contatto assai poco oggettivo, gonfiato da notizie false ed esagerate, che aveva l’effetto di modellare la nostra idea di realtà a suo piacimento. 

Così, in quel frangente di mediazione esclusiva delle immagini, Fujiwara trovò un nuovo compagno, partito da un semplice collage di cartoncini colorati, ritagliati a formare un orsetto. Niente di più: una forma nata dal nulla, che aspettava solo di ricevere un’identità dal suo artefice. Trovandosi nei panni del creatore, l’artista cominciò a pensare a come delineare questa identità. Quale genere, quale razza, quale classe di appartenenza, attribuire al suo nuovo personaggio? Domane lecite, quanto, a suo stesso dire, violente. Violente nell’esprimere un senso di potere del creatore sulla creatura: chi era, lui, per dire chi o come dovesse essere il suo orsetto?

Piuttosto che rispondere, decise di soprassedere. La domanda “chi è quest’orso?” prese la strada di “Who the Baer?”: un orsett* in cerca della sua identità. 

Appropriarsi delle immagini come pane quotidiano 

Non avendo una personalità, l’unica cosa che Who sanno (l’artista vuole che li si chiami al plurale!) è l’essere un’immagine. Un’immagine bidimensionale, piatta, di spirito quasi dadaista, come quelle che affollano le cornici della Galleria Giò Marconi in questi giorni. L’aspetto è di un orsetto dal pelo bianco, che ricorda il (vero) Winnie the Pooh, con un cuore giallo come il miele e una lingua lunghissima. Qualche volta sono in jeans (indumento gender-free per eccellenza), qualche volta no… sono un essere camaleontico, tutt’altro che definito. 

Il vantaggio di essere senza identità li rende capaci di appropriarsi di ogni tipo di immagine della nostra realtà: si possono trasformare in tutto, da un ingrediente della zuppa Campbell (notare la citazione di Warhol), al Tondo Doni di Michelangelo. E qui, in questo atto di appropriazione apparentemente giocoso, si nasconde una riflessione critica sulla realtà quotidiana. Noi, che un’identità presumiamo di averla, siamo i primi a continuare a utilizzare ogni tipo di immagine che ci viene proposta per definirci o modellarci. Tuttavia, tra noi e Who c’è una fondamentale differenza: loro sono in cerca del proprio sé, noi (in teoria) no. 

Un ingenuo portavoce delle domande esistenziali dell’uomo

Davanti a quelle domande scarabocchiate in modo infantile sui collage, Fujiwara vuole portarci a riflettere. Un orsett* che si chiede “chi sono io?” non è altro che un uomo, l’umanità intera, che si nasconde dietro un disegno con la stessa domanda inespressa. Gli interrogativi che Who si pongono non sono diversi da quelli che ci tormentano fin dalle origini della filosofia greca. Oggi, però, tendiamo a risolverle in fretta, appiccicando etichette identitarie qua e là, come fossero toppe per un problema che fa acqua da tutte le parti. Definire il genere, lo status sociale, la razza addirittura, è una risposta piuttosto riduttiva, per non dire priva di senso, su chi siamo noi. Soffermarsi su questa superficialità rischia solo di farci assumere distorte posizioni di pregiudizi o preconcetti.

Nel dubbio, meglio sospendere il giudizio. Meglio rinviarlo a un futuro in cui saremo in grado di essere più autentici con noi stessi. 

Di Emma Sedini

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