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Quando il nonno di Chagall si sedette sul tetto a mangiare tzimmes

Tutto ha inizio da questa illustrazione. Tutto comincia da una casetta con due finestre, un camino di mattoni sulla punta, e un maialino abbozzato nel cortile di fondo. Si tratta di un disegno a “puntasecca”, in bianco e nero, che potrebbe aver fatto un bambino. Due personaggi completano la scena: c’è una vecchia con il fazzoletto in testa, che si affaccia alla porta di casa, come se stesse urlando in direzione del tetto. Lassù, proprio sul tetto, c’è un omino dall’aria curiosa. Lo si vede appollaiato sul camino, con un barattolo in mano…

Dalla didascalia di accompagnamento si scoprono le due rispettive identità: il nonno e la nonna. Di chi?

Di Marc Chagall.

Così prende vita la mostra sull’artista, che raccoglie nelle sale del MUDEC milanese più di cento opere provenienti dal Museo Ebraico di Gerusalemme. Il legame tra Chagall e la religione ebraica è qualcosa di costante in ogni sua pennellata: il pittore spesso definito “dei sogni” fu anche un uomo profondamente spirituale e religioso. Il suo mondo onirico, fatto di colori e animali bucolici, ha solide radici nella cultura popolare yiddish, che caratterizzò tutta la sua infanzia passata a Vitebsk, piccolo villaggio oggi in Bielorussia. 

L’illustrazione della casa dei nonni è un incipit più che eloquente… se lo si sa interpretare a dovere! In quei pochi tratti neri di puntasecca è racchiuso tutto il cuore dell’arte di Chagall più legata all’Ebraismo e alle sue origini. Tuttavia, coglierne il senso è un piacere per pochi. Sottili sono i giochi di parole e i significati intrecciati allo yiddish: se apparteneste a quel mondo, non avreste problemi. Chi è digiuno di tradizioni ebraiche, però, dovrà prima istruirsi qui di seguito, per poter apprezzare il sapore dello tzimmes come si deve…

Proprio così: c’è un piatto, un dolce per la precisione, che fa da capofila alle opere in mostra. Volendo astrarre dal contesto specifico, potremmo dire che tale piatto sia compreso nelle fonti di ispirazione della produzione artistica di Chagall più spiccatamente biografica. In effetti, bisogna ammettere che, certi sapori segnano i nostri ricordi in eterno. È più facile rievocare l’atmosfera di un evento, se ne è stato sperimentato il gusto. La memoria del nostro palato funziona bene, tanto quanto quella della mente. 

Giunti a questo punto, è opportuno svelare l’identità della pietanza in questione. Lo tzimmes. È più difficile da pronunciare, che da cucinare. Si tratta di un tipico piatto servito durante la festa di Rosh Hashanah, ossia il Capodanno ebraico. La ricetta è variabile, a seconda delle zone e delle tradizioni familiari… essenzialmente, è a base di carote (e altri tuberi), miele, spezie e frutta secca. Il nome deriverebbe dal metodo di preparazione: una lunga cottura, fino a che le carote tagliuzzate a rondelle non siano morbide e cremose. Fatto ciò, non resta che aggiungere miele, cannella e uvette a piacere. 

Come potete intendere, il risultato è qualcosa di simile a una composta grossolana, fatta in gran parte di carote, e arricchita con quello che di dolce si ha a disposizione in dispensa. Le carote sono indispensabili, per via del loro significato simbolico: la loro traduzione è merren, interpretabile anche come aumentare. Mangiare tzimmes a capodanno dovrebbe essere un promemoria di buoni propositi di “fare di più” e impegnarsi maggiormente nell’anno a venire. 

In sintesi, abbiamo a che fare con un dolce tipico delle feste ebraiche, che dovrebbe risultare gustoso e zuccherino al pari di un barattolo di marmellata.

E, di fatti, è da un barattolo che abbiamo cominciato. O meglio, per riprendere le fila del discorso, da un barattolo nelle mani di un nonno seduto sul camino di una casa. E c’è anche la relativa moglie (fidatevi, è fondamentale per capire il gioco), che sbraita chissà cosa dalla porta. 

Per spiegare la buffa scenetta, bisogna aver letto l’autobiografia “la mia vita” di Chagall. Per capirne anche l’ironia e il gioco di parole, occorrerebbe parlare lo yiddish. 

Cominciamo con la storia. L’evento risale all’infanzia della madre dell’artista, che gli aveva raccontato cosa fosse accaduto anni prima durante i festeggiamenti di Capodanno. Ebbene: il nonno, da buon ghiottone, era a un certo punto scomparso dalla vista degli invitati, andando a nascondersi chissà dove…

Se l’era filata con il barattolo (o forse con il pentolone) dello tzimmes, ed era salito sul tetto per mangiarselo in santa pace. Capite anche voi come dovesse essere adirata la nonna, quando ebbe scoperto che il marito si era portato via tutto il dolce della festa! E, di fatti, eccola lì a gridare sulla soglia, sperando di convincere il nonno a scendere. Chissà come poi andò a finire…

La scenetta si spera sia ora chiara. Ma ancora resta da sciogliere il groviglio di parole. Si tratta del doppio significato della parola tzimmes. Che si riferisca innanzitutto al dolce appena descritto, è assodato. Ma non basta. In yiddish, è usata anche in modo quasi dispregiativo per indicare qualcuno che “sta facendo troppo baccano”. Guardate alla nonna adirata che urla in direzione del ghiottone sul tetto… si può dire che l’abbia colto proprio con le mani nel barattolo!

… barattolo, non di marmellata, ma di tzimmes. E tanto è bastato a eterizzare questo ricordo nella memoria di Chagall, che se lo è ricordato per tutta la vita.

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