C’erano volte in cui, insieme al biglietto, si prendeva su anche un certo incarto bruno, dal profumo fragrante. Il bigliettaio, così, era più contento: niente resto da conteggiare. Il pendolare pure: niente spiccioli da trovare nel fondo della tasca, ma solo un incarto, un incarto bruno, che avrebbe fatto da compagno in quel lungo viaggio che cominciava…
Correvano gli anni ’50, e il tranvai correva sulle rotaie con loro. Correva su quel cammino di ferro che connetteva Monza a Milano al mattino, e Milano a Monza la sera. La vita dei pendolari del contado era scandita da quel saliscendi rituale: il frizzante timore di perdere il tram al sorgere del sole, e arrivare il ritardo al lavoro, la voglia di tornare a casa, all’imbrunire.
Il tutto, accompagnato da un pane singolare. Pan tranvai, lo chiamavano. Come il caro tranvai.
Tranvai, lo chiamavano. (Quasi) come il tramway che gli imprenditori, uomini navigati, si inorgoglivano di finanziare. Quasi… c’era quella nota caratteristica, un po’ dialettale, un po’ ingenua, che rendeva quella parola anglofona tutta speciale.
Così speciale, da meritarsi di dare sapore al pane. Pane, che non era più proprio pane. Diventava un amico, prima di tutto. Era quella pagnotta che veniva acquistata insieme al biglietto del tram, al posto di chiedere indietro il resto. Ne valeva la pena. Il viaggio fino alla Madunina era lungo: si doveva far piano, per non disturbare le vacche pascolanti. Nel mentre, si apriva l’incarto, e si gustava…
Prima si gustava il profumo. Anche quello, solo, bastava. L’uvetta dolce, zuccherina, punteggiava tutto l’impasto, liberando il suo aroma inconfondibile. E, poi, era pur sempre pane appena sfornato, ancora tiepido, intriso di ricordi del forno.
Così, anche su quel sedile freddo del tranvai, sembrava di essere ancora nel letto. Ancora in pigiama. ancora in un sogno al sapore di uvetta e caffellatte mattutino…
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