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Borbonico

Si sale in carrozza; uno scalpitio e si parte, alla volta di una lussuosa corte del Mezzogiorno abruzzese. Banchetti, tessuti preziosi, tendaggi e broccati dai mille colori.

La tavola è lunga, adornata di fiori; i nobili attorno vi fanno girotondo, in un chiacchiericcio vezzoso. Si parla di conquiste, di musica, di artisti cortesi. Si parla di partite di pallacorda, di “parties de campagne” imminenti, in cui sfoggiare gli abiti nuovi. 

Dopo un poco, lo scalco fa il suo ingresso. Si annuncia l’inizio del banchetto: i servitori cominciano a sfilare, deponendo le pietanze con gesti eleganti. Qualcuna fa bella mostra sulla credenza, qualcuna, invece, è diretta ai singoli invitati. 

Il pranzo procede, scandito da danze, brevi cenni musicali e versi rimati… una commistione di sapori, parole, immagini, che non conosce eguali.

Finché, non ci si accorge della fine. Giunta, dopo quel lungo succedersi di piatti e leccornie. È passato anche un altro banchetto. Un altro giorno perso in una profusione di colore e ricchezza. 

Poco si ricorda di quanto si è visto e assaggiato: troppe le offerte, le interruzioni, gli eccessi di spezie e colori. Solo una cosa non abbandona la mente: quel pane. Borbonico, come lo scalco lo aveva chiamato nella sua ostentata presentazione. Impossibile dimenticarlo, anche con gli occhi riempiti fino all’orlo di in  di frutti e paramenti variopinti. Merito di quell’aroma di Solina, di Saragolla e Senatore Cappelli. Note speciali, capaci di porsi al di sopra di ogni fasto rinascimentale. L’animo umano, in fondo, anche quando è coperto dai broccati più ricchi, resta legato alla terra. Resta semplice, come quello di un contadino. Ed è così che basta un pezzo di pane, purché sia quello giusto, per far crollare ogni castello, e commuovere il cuore. 

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