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I colori della mia terra. Le grandi tele di Sally Gabori ricordano la storia degli Aborigeni australiani

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Una storia di natura, duro allontanamento, e ritorno a casa  Per comprendere il significato delle opere astratte di Sally Gabori, occorre prima fare un viaggio lontano, tanto nel tempo quanto in termini geografici. Occorre risalire circa al 1924, posizionando la propria mente sull’isola Bentinck, nel 

L’effimero scorre davanti alle lacrime della Madonna. “Aperçues” di Nina Carini nella Basilica di San Celso

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Un contesto inaspettato per l’arte contemporanea Quando si dice che Milano ha mille volti e luoghi nascosti, solitamente sepolti nella frenesia quotidiana, si intende questo. La Basilica di San Celso, quel piccolo edificio anticheggiante sulla destra della chiesa di Santa Maria dei Miracoli (in Corso 

La nuova Accademia Carrara. Una delizia di colori e Rinascimento italiano per gli occhi

La nuova Accademia Carrara. Una delizia di colori e Rinascimento italiano per gli occhi

Un nuovo abito variopinto per la Capitale della Cultura

Il 2023 è un anno importante per Bergamo, come per Brescia. E’ l’anno in cui, in nome delle difficoltà attraversate (e superate) durante la Pandemia, le due città sono state scelte come Capitali della Cultura. I motivi, ancor prima di quelli di memoria dei recenti eventi, sono artistici. Artistici, in quanto queste terre lombarde sono state genesi e teatro di grandi talenti dei pittori dei secoli passati. Nel rinascimento, soprattutto… ma non solo. 

Una tappa irrinunciabile per fare onore al titolo di Capitale della Cultura è l’Accademia Carrara di Bergamo. Nel suo edificio neoclassico, costruito nel 1810, dimorano tutti i dipinti e le sculture che i generosi collezionisti hanno voluto donare alla Scuola di pittura. L’iniziatore fu l’erudito Giacomo Carrara. Dalla sua volontà di mettere a disposizione degli accademici la sua ricca raccolta di opere, ne nacque l’odierno museo. 

Museo che, oggi, vale ancor più la pena visitare. Per inaugurare il 2023 come si deve, è stato pensato un nuovo allestimento: un tripudio di colori avvolgenti che guidano il pubblico alla scoperta dei suoi tesori rinascimentali. Sentirsi “immersi” nella pittura non è più una metafora.

Con l’intento di stuzzicare la curiosità di qualche prossimo visitatore, ecco una selezione dei capolavori più interessanti.

Ritratto di Lionello D’Este – Pisanello

Ai tempi della realizzazione di questo ritratto, Pisanello si trovava a Ferrara, presso la corte estense, acclamato tra i pittori più importanti del Gotico “Cortese” (o Internazionale). Si racconta che quest’opera fu fatta in occasione di una competizione pittorica tra l’artista in questione, e Jacopo Bellini. Malgrado fu quest’ultimo ad avere la meglio, il lavoro di Pisanello ebbe una fortuna successiva maggiore, tanto da arrivare fino a qui, all’Accademia Carrara.

Come prima tappa doverosa all’interno della collezione, la tavola esemplifica bene ciò che andava di moda nelle corti italiane prima dell’avvento del Rinascimento. Si tratta del Gotico più tardo, ancora caratterizzato da una ritrattistica ispirata ai profili delle medaglie, arricchiti di raffinati dettagli e boccioli in fiore. È ciò che tipicamente si definisce uno stile cortese e cavalleresco

Ritratto di Lionello d’Este

I tre crocifissi – V. Foppa 

Siamo qui dinnanzi a una delle opere che diedero il “là” al Rinascimento Lombardo. Vincenzo Foppa, l’autore, è infatti considerato tra gli iniziatori di questa svolta artistica che abbandonò gli ori del Gotico Internazionale. 

Guardando a questa scena, contornata da un’architettura classicheggiante che immerge l’osservatore, e al contempo lo distanzia dalla sofferenza, si percepisce un che di novità. Novità nella prospettiva, nell’umanità dei volti dei tre crocifissi, e nel dolce paesaggio circostante. Alle spalle della Croce, gli studiosi hanno azzardato addirittura un’identificazione geografica veritiera. Si tratterebbe di un territorio trentino: il fiume sarebbe l’Adige, la cittadella a sinistra dovrebbe essere quella attorno al Castello di Sabbionara di Avio, mentre il gruppo di torri a destra Trento. 

Al di là del realismo, c’è ancora una buona dose di Gotico fiabesco: la foresta modellata con graziosi alberelli sarebbe il teatro perfetto di una qualche favola cavalleresca.

I tre crocifissi

Madonna del latte – Bergognone

Il titolo coglie soltanto una delle due iconografie della Madonna catturate in questa tavola del Bergognone (pittore lombardo del 1400). Maria allatta il Bambinello, ma al contempo è sormontata alle spalle da un fitto roseto fiorito: un capolavoro di dettagli resi alla fiamminga. L’artista infatti, oltre che interprete del Rinascimento del suo tempo, entrò in contatto con la pittura nordica, riprendendone il gusto per le raffigurazioni minuziose. 

Il brano di paesaggio lombardo a destra è un ulteriore esempio di stile fiammingo. Esso ci restituisce un paesino illuminato dalle luci del pomeriggio, in cui i pioppi si alternano ai tetti delle case. L’aia con le galline, a due passi da un canale stagnante affollato di papere, è probabile rimando ai canali paludosi padani. Completa lo scorcio un personaggio accompagnato da un cane, che gli studiosi identificano con san Giuseppe. 

Madonna del Latte

Storia di Virginia – S. Botticelli

La destinazione di questo quadro insolitamente grande per la collezione dell’Accademia (le opere sono tutte piuttosto piccole) era di fare da spalliera per una camera nuziale. 

Si tratta del racconto per immagini della storia di Virginia: eroina romana che fu uccisa dal padre, pur di salvarne l’onore e la purezza davanti ai pretendenti che la bramavano con illegittimo ardore.

Se non fosse per la il nome riportato sulla didascalia, si farebbe fatica a riconoscere all’opera la stessa paternità della Primavera, o della Nascita di Venere. Eppure, si tratta sempre di Botticelli, ma di un Botticelli tardo, ormai riflessivo e filosofico, segnato dai mutamenti del panorama fiorentino di fine Cinquecento. Mentre la Primavera aveva narrato i fasti della corte di Borendo il Magnifico, l’eroina Virginia riporta i retaggi della predicazione apocalittica del Savonarola, e del credo della nuova Repubblica Fiorentina creata nel 1505. Il suo andare contro i soprusi e le violenze richiama le inquietudini fiorentine, come fosse una finestra critica sulla realtà del tempo.

Storia di Virginia

 

San Sebastiano – Raffaello

Malgrado la dolce perfezione del volto, il dipinto risale alla mano di un Raffaello neppure ventenne, che lo realizzò per la devozione privata di un ignoto committente. C’è chi azzarda addirittura il ritratto dello stesso acquirente nel volto del santo; in mancanza di certezze, lo si considera un semplice san Sebastiano. Certo, è un’iconografia ben diversa dalle “canoniche” del santo (di solito immortalato crudamente trafitto dalle frecce): i gusti del committente dovevano essere molto raffinati. 

Nei lineamenti del giovane si rivede l’influenza del Perugino; tuttavia, una simile resa dei particolari e della dolcezza è qualcosa di unicamente raffaellesco.

san Sebastiano

Ritratto di Lucina Brembati – L. Lotto 

Questo ritratto, risalente al fiorente periodo di produzione bergamasca dell’artista, è uno dei suoi capolavori. Questo è vero nella resa, estremamente dettagliata e naturale, ma anche nell’ingegnoso rebus nascosto tra le pennellate. Proprio così: con un po’ di conoscenza storica dell’epoca, è possibile indovinare l’identità del soggetto senza guardare la didascalia. Come spesso amava fare, il Lotto escogitò un gioco di parole e simboli da racchiudere nella scena. Per trovare la soluzione, guardate prima la luna, in alto a sinistra, su cui compaiono le lettere “CI”. Aggiungetele alla “luna”: LuCIna. Poi, soffermatevi sullo stemma dell’anello infilato sull’indice, che appartieneva alla nobile famiglia Brembati. Ecco: Lucina Brembati.

Interessante è notare altri due dettagli che raccontano le mode dell’epoca. Il primo è la cosiddetta capigliara: un’elaborata acconciatura piena di fiocchi e perle. Il secondo è ciò che è portato appeso al collo, dalla forma di uncino. Oltre che essere un simbolo portafortuna, pare che fosse un utensile analogo al nostro stuzzicadenti.

Ritratto Lucina Brembati

 

Ragazzo con canestro di pane e dolciumi – E. Baschenis

Frutto di una recentissima donazione, questo raro esemplare di ritratto del Baschenis (autore seicentesco not soprattutto per le nature morte musicali) è già icona dell’Accademia. 

Una luce calda, proveniente da sinistra, illumina il cesto di pane e dolcetti, resi con un realismo impeccabile. I colori fragranti del cibo contrastano con le tinte più fredde del volto del ragazzino. Ecco una scena di pittura di genere deliziosa, che colpisce per la naturalezza, tanto da far pensare a un vero e proprio ritratto. Di chi? Non si sa…

Ragazzo con canestra di pane e dolciumi

Ragazza con rose. Ritratto della figlia Irene – C. Tallone

Era ormai fine Ottocento: la fotografia era alle porte. Tra gli ultimi grandi interpreti della ritrattistica italiana figura proprio Cesare Tallone, con la sua mano rapida ed espressiva, capace di cogliere l’umanità anche in poche pennellate. In questa tela dai colori accesi e primaverili, la giovinezza della figlia è ferma in un’atemporalità dal profumo di ciliegie. Quando un padre guarda la figlioletta, sembra che sia sempre primavera. Anche in pieno inverno.

Ritratto della figlia Irene

Il realismo senza ornato che fece da ponte tra Gotico e Rinascimento. La “Crocifissione” di Masaccio al Museo Diocesano

Il realismo senza ornato che fece da ponte tra Gotico e Rinascimento. La “Crocifissione” di Masaccio al Museo Diocesano

In ricordo di un grande donatore Il primo maggio di quest’anno, Alberto Crespi avrebbe soffiato cento candeline sulla torta. In ricordo di questo raffinato giurista milanese, scomparso nel 2022, il Museo Diocesano di Milano è riuscito a conquistare (temporaneamente) il “fondo oro per eccellenza” della 

(In)utili incontri? Un giro ad (Un)fair

(In)utili incontri? Un giro ad (Un)fair

“Come tutte le fiere abbiamo obiettivi che si traducono in target e numeri, ma quello che vogliamo vedere nei prossimi giorni sono galleristi e collezionisti felici.” Emanuela Porcu e Laura Gabellotto Un contro-concetto di fiera dell’arte Con queste parole, le direttrici Emanuela Porcu e Laura 

Cent’anni dopo la scoperta di Spina etrusca

Cent’anni dopo la scoperta di Spina etrusca

Una scoperta archeologica da non dimenticare

1922 – 2022. Cent’anni sono ormai trascorsi da quell’inaspettato mucchio di “terrecotte e bronzi di magnifica fattura greca”, che emersero durante gli scavi di bonifica delle valli di Comacchio. Da allora, gli archeologi non si sono più arrestati, continuando ad approfondire e incrementare il patrimonio di conoscenze della città etrusca che fu Spina. 

La Fondazione Rovati, inserendosi nel filone celebrativo di questa importante ricorrenza, dà il suo contributo con una piccola mostra temporanea in collaborazione con il Museo Archeologico milanese. Fino al 5 marzo, alcuni preziosi esemplari delle suddette terrecotte di magnifica fattura, ispirate alle figure rosse greche, saranno esposti al Piano Nobile, in dialogo con gli altri manufatti etruschi e contemporanei della collezione. È un’occasione per rispolverare la storia legata alle antiche origini di Spina. 

Le origini di Spina etrusca

Per rievocare la vita di Spina ai tempi della supremazia etrusca sulla Penisola, partiamo dalla mitologia. Variegati sono i miti che ne narrano le origini: c’è chi sostiene che fu costruita dai Pelasgi (popolo della Tessaglia), e chi identifica in Diomede il suo fondatore. Ciò che le informazioni storiche dei resti ci riportano è una nascita collocata nel VI secolo a.C. 

La posizione di Spina era assai strategica, commercialmente parlando. Era infatti situata in punto ben riparato dalla costa, che ne faceva il polo ideale in cui collocare lo snodo mercantile tra Etruria e popoli stranieri affacciati sul Mediterraneo. Greci prima di tutti. La presenza delle terrecotte greche conferma gli stretti rapporti commerciali che la città ebbe con Atene. Dovete immaginarvi grandi navi cariche di vasi mercanzia (molto raffinati) e vasi contenitori (di olio, vino, ed essenze), che partivano dal porto greco del Pireo, per poi giungere a Spina. Lì, le merci erano smistate, e direzionate nelle varie città etrusche disperse lungo la penisola. Prima di invertire la rotta, le imbarcazioni erano riempite di prodotti da dare in cambio: dal grano (gli Etruschi erano grandi produttori), ai vasi di bucchero, ai manufatti di bronzo e al vino. Da ciò si intuisce come il commercio non prevedesse monete, bensì il semplice baratto. 

Le Necropoli e i corredi parlanti

Centrali nei ritrovamenti, le Necropoli e le loro 4000 sepolture ci hanno fornito ampio materiale di studio, che narra della vita etrusca più di tanti altri reperti. Dalle tombe, e soprattutto dai loro corredi, emerge uno spiccato gusto alla greca che doveva pervadere tutta la città. Le moltissime ceramiche attiche, a figure nere, oppure rosse, provenivano dalle migliori botteghe della Grecia. Testimonianza importante per confermare la fittissima rete di scambi che univa Spina ad Atene. E tale legame si rifletteva in ogni aspetto della vita quotidiana: simili erano le abitudini alimentari, i costumi… fino ad arrivare ai riti funebri. Anche nel passaggio all’aldilà, le usanze etrusche erano ellenizzate, completando il cerchio di rimandi alla Magna Grecia: il migliore esempio di civiltà di allora. 

Mappa di Spina
Cercasi risposte

Cercasi risposte

“Who is Who-dimensional?” alla Galleria Giò Marconi Who the Baer. Un orsett* in cerca di identità Una delle poche certezze di questo personaggio è la sua genesi artistica. Durante il primo lockdown del 2020, quando tutti ci trovavamo rinchiusi nelle nostre case, l’artista britannico Simon 

Risalendo i gradini del passato attorno alla Croce di Re Desiderio

Risalendo i gradini del passato attorno alla Croce di Re Desiderio

Brescia, 16 gennaio 2023

L’anno nuovo si inaugura in modo assai festoso per Brescia (e Bergamo): dodici mesi in cui fregiarsi del titolo onorifico di “Capitale della Cultura”. Se si è deciso di concederle tale appellativo, ci deve certo essere un che di artistico e speciale che si nasconde all’interno del suo perimetro cittadino. Va subito detto che, se pensate di arrivare, abbandonare la macchina per una qualunque strada, e soddisfare subito il vostro appetito di bellezza, rimarreste delusi. Il patrimonio culturale di Brescia (che persino l’UNESCO ha riconosciuto!) si fa desiderare… è necessario bussargli alla porta da vicino. Una volta trovato, però, ogni pregiudizio o critica cade, lasciando spazio alla voce dell’antica (e moderna) Brixia, che ha imparato a parlare il Latino, quanto il Longobardo, e il Volgare Italiano

Tutto comincia lungo la Via dei Musei, che ben contiene nel suo nome la descrizione di ciò che vi si affaccia tra le case. Musei… ma, più precisamente, musei archeologici, che aprono a noi visitatori la via verso il passato. Due sono i complessi che vale la pena vedere (e conferma l’UNESCO) se si capita nei pressi di Brescia: quello prettamente Archeologico, che fa esplorare i monumentali resti della città romana che fu; e il complesso del Monastero di San Salvatore e Santa Giulia. Dovendo scegliere (qualsiasi stomaco si sazierebbe a pieno con uno soltanto), dirigiamoci verso il secondo, che risale la storia cittadina, percorrendone ogni gradino.

Come accennato, si tratta di un antico monastero, fondato nel 753 d.C. dal re dei Longobardi (popolo barbaro che occupava le terre lombarde nel Medioevo) Desiderio, e dalla moglie Ansa. Oggi, come ben si vede, monastero non lo è più: nel 1798, Napoleone decretò la sua chiusura, trasformandolo in caserma per i suoi militari. Da allora in poi, la sua funzione religiosa fu pressoché compromessa; non vale lo stesso per il suo tesoro artistico…

Tale tesoro, a dire il vero, non cominciò a essere costruito nell’anno medievale appena citato, bensì molti secoli prima, quando qui, a Brixia, dominavano i Romani. Il primo scalino del passato in ordine cronologico è rappresentato dalle cosiddette Domus dell’Ortaglia, dette così per l’essere state ritrovate nel mezzo dell’orto del Monastero. La storia andò più o meno così: dopo secoli di noncuranza (e cecità storico-artistica), ci si domandò come mai tra carote, pomodori e zucchine, sporgesse una colonna di aspetto assai antico. Ce lo si domandò a tal punto, da decidersi a scavare, per curiosare nel sottosuolo… ne emersero due ville romane, abitate tra il I e il IV secolo d.C. Scoperta entusiasmante: nonostante i secoli fossero trascorsi, e i Longobardi ci avessero costruito sopra (letteralmente) il proprio monastero, lo stato di conservazione era ottimo. 

Ed eccole lì, dunque, nel profondo del Museo di Santa Giulia, le due domus dell’alta borghesia romana, con tanto di pavimenti a mosaico ancora ricchi di storie da raccontare. Compare Dioniso, il dio del vino, intento a dare da bere alla sua compagna pantera; ci sono poi rami carichi di frutti: melograni e (forse) pere. Immagini più confuse dipingono altre stanze… le stagioni, brocche per l’acqua, e rosoni che creano delicate armonie cromatiche tra di loro. Tanto è lo stupore che colma la vista passeggiando attorno ai resti antichi, quanti i non detti che attendono di essere ricostruiti e trovati. 

Domus di Dioniso

Abbandonando il gradino romano, risaliamo verso tempi più recenti, passando per l’età tardo-antica, e tornando al periodo Longobardo. Tappa irrinunciabile: all’epoca di fondazione del Monastero (ricordiamo essere il 753) risale la Basilica di San Salvatore, che ha intriso, nelle sue forme lineari e pure, il gusto alto-medievale per la Classicità. La sua architettura, però, è molto di più; è un esempio di quello che definiremmo (noi moderni) un riciclo amico dell’ambiente! Attraversando la navata, o insinuandosi nella cripta, sarà difficile vedere una colonna esattamente uguale all’altra. Alcune sono lisce, altre scanalate, alcune con capitelli essenziali, altre con intagli elaboratissimi che richiamano i Bizantini. Motivo di ciò è la loro varia provenienza, che spazia dai resti di Brixia, fino alla lontana Ravenna bizantina. C’è qui da ricordare, infatti, che il Monastero e la sua Basilica furono costruiti letteralmente sopra il mondo antico sottostante.

Tuttavia, il tesoro longobardo più prezioso non è nella chiesa principale, bensì in un altro spazio, più piccolo, raccolto, e distante nel tempo. Si tratta dell’Oratorio di Santa Maria in Solario: edificio del periodo romanico, ossia posteriore a Re Desiderio. Al suo interno, l’antico dialoga con il moderno, creando un cerchio che unisce Romani, Longobardi, Età Comunale e Rinascimento. Partiamo dalla struttura, che si situa nel mezzo (mette d’accordo tutte le voci!) intorno al XII secolo, affrescata, però, con ricchissimi colori tinteggiati dal Ferramola: pittore bresciano del ‘500. Tra tutte le immagini, rimane nel cuore il cielo blu lapislazzuli, punteggiato da centinaia di stelline d’oro. Una cornice onorevole, per i due manufatti che vi sono conservati al di sotto. Due: uno per piano, dato che l’ambiente è situato su più livelli. In quello più basso, c’è la cosiddetta Lipsanoteca (contenitore per reliquie) romana, finemente intagliata in superfici d’avorio. Al di sopra, ecco la Croce di Desiderio: più di duecento cammei, cristalli, e pietre preziose, fissati sopra un’anima di legno a cui è inchiodato il Cristo. In essa, è racchiuso il cuore di tutta la storia del posto, simboleggiata dal manufatto che reca il nome del celebre re longobardo, senza in quale gli strati del passato non si sarebbero mai incontrati. Se appartenesse davvero a Desiderio, non è certo; quel che è sicuro, è che le monache residenti la utilizzarono per secoli durante le celebrazioni più importanti, trattandola come un tesoro dal valore inestimabile. Anche oggi, per noi contemporanei, scorrere gli occhi su quel tessuto di gemme variopinte è un piacere ricco di stupore e di pensieri che si ricollegano alla sua storia. La Croce, durante la sua più che millenaria esistenza, vide la crescita e il modificarsi del Monastero attorno a lei, presenziando (probabilmente) ai pittori rinascimentali che si arrampicarono sulle pareti a tratteggiare i loro affreschi. 

Croce di Desiderio
Oratorio

Ammirato anche il tesoro di Desiderio, ci si può definire soddisfatti. Tuttavia, c’è ancora un angolo in cui concludere l’avventura bresciana in ogni tempo: il Coro delle Monache. Come fa intuire l’appellativo, si trattava del luogo dedicato alle Suore Benedettine, che giunsero nel Monastero a metà ‘400. Da lì, lontane dalla folla di fedeli, potevano assistere appartate alle funzioni religiose che avvenivano nel mentre nella chiesa maggiore. Anche qui, noterete lo zampino del Ferramola: dal pavimento, al soffitto, tutto è decorato con immagini parlanti della vita di Cristo. Non ci potrebbe essere finale migliore, che perdersi nella “Cappella Sistina” della romana, longobarda, comunale, e rinascimentale, Brixia. 

Coro delle Monache

Al cospetto della Pietà Rondanini

Al cospetto della Pietà Rondanini

Dal maggio 2015, anno ricordato dai milanesi come quello della grande Esposizione Universale dedicata al mangiare, nel Castello Sforzesco c’è un undicesimo museo ad aggiungersi al restante ricco repertorio.  Si tratta del Museo della Pietà Rondanini, finalmente esposta dignitosamente in tutto il suo fascino di